lunedì 17 maggio 2010

Del Noce, Vico e l'ateismo. La relazione di Mauro Ronco

La linea Vico-Rosmini come risposta all’ateismo nel pensiero di Augusto Del Noce
Mauro Ronco

1. L’affresco storico.
Non si può comprendere il pensiero filosofico e storico di Augusto Del Noce se non lo si cala all’interno del suo tempo e dei problemi politici che Egli si trovò a vivere con una partecipazione piena e accorata, tanto più intensa quanto più irrimediabile gli appariva lo sgretolamento di ciò che era rimasto del meraviglioso edificio della civiltà cristiana, pur dopo gli sfregi arrecati dalla rivoluzione detta francese e dalla sua versione risorgimentale italiana.
Egli, avendo vissuto la giovinezza e la maturità scientifica nel periodo più acuto del dominio delle ideologie totalitarie, poté constatare passo dopo passo lo stritolamento progressivo delle istituzioni, del costume e dell’etica pubblica ispirata al cristianesimo per opera del totalitarismo nazista e del comunismo. Questi regimi e queste ideologie, pur lottando ferocemente e all’ultimo sangue gli uni contro gli altri, furono sinistramente uniti nel distruggere le vestigia della civiltà cristiana e nell’impedire con la violenza la possibilità di ri-presentazione efficace dell’ideale di vita cristiano.
Augusto Del Noce non fu mai disposto a transigere sui princìpi e mai rinunciò alla idea che soltanto il ritorno alla dottrina politica e sociale cristiana avrebbe consentito la cura delle società malate dell’Occidente, affinché le stesse potessero nuovamente contribuire, come nei secoli della Cristianità, al progresso del mondo intero. Per questo suo inflessibile attaccamento ai princìpi Del Noce fu sempre malvisto dai poteri forti e dagli stessi costantemente emarginato.
Negli anni precedenti all’esplosione della seconda guerra mondiale Egli, influenzato dal pensiero di Jacques Maritain, come la gran parte della gioventù studiosa cattolica del tempo, incerto tra i motivi antimoderni e ultramoderni della sua filosofia e delle sue ricadute politiche, partecipò all’esperienza culturale della «sinistra» cristiana, avvicinandosi alle posizioni rappresentate, nell’ultimo tratto del decennio ’30-‘40’, da Felice Balbo e Franco Rodano. Dopo la guerra, Egli, approfondendo il pensiero di Jacques Maritain, si staccò vigorosamente dalla «sinistra» cristiana e ne divenne il più acuto e intransigente critico, guadagnandosi così il disprezzo e l’emarginazione da parte degli eredi, culturali e politici, di quella «sinistra». Costoro, sia all’esterno che all’interno della Democrazia Cristiana, sconfitti dall’evento prodigioso del 18 aprile 1948, che, sotto l’impulso spirituale del Pontefice Pio XII, di venerata memoria, e la protezione della Vergine Santissima, aveva reso impossibile il patto di governo comune tra le forze cattoliche e quelle comuniste, operarono uniti sul piano politico per la secolarizzazione della società. A livello culturale si industriarono di trovare le ragioni di incontro tra la fede cristiana e il pensiero ateistico moderno, soprattutto nell’espressione logicamente definitiva del marxismo. E’ impossibile in questa sede esaminare il percorso sopraccennato. Basti qui dire che questo obiettivo, sul piano politico, filosofico e teologico, fu portato fino alle estreme conseguenze per tutto il corso della cosiddetta prima repubblica, fino alla caduta del muro di Berlino nel 1989.
Nell’arengo politico i cattolici che non avevano reciso completamente il legame con la dottrina sociale della Chiesa – gli eredi di don Luigi Sturzo, tra cui, in particolare, Alcide De Gasperi, con una parte della Democrazia Cristiana – furono via via esclusi dai posti di comando del partito, con sempre maggiore determinazione a partire dalla morte dello statista trentino nel 1954. I Comitati civici guidati dal Prof. Luigi Gedda, protagonisti della vittoria del 1948, che costituivano il canale di trasmissione tra la cultura cristiana e la politica attiva, furono emarginati. Negli organi dirigenti del partito gli eredi di don Sturzo, pur maggioritari nei gruppi parlamentari, divennero una ridotta minoranza.

2. Le condizioni di minorità della cultura cattolica nel lungo dopoguerra italiano.
La progressiva erosione della dottrina sociale della Chiesa fu contrassegnata dalla sua sostituzione con l’ideologia detta «democratica». Dietro l’enfatico entusiasmo per la Costituzione repubblicana del 1948, questa ideologia, facendo proprio il giudizio positivo circa la ineluttabilità storica del materialismo storico, aderiva al processo di secolarizzazione della vita etica, politica e sociale. L’ideologia «democratica», se trovò pochi e deboli oppositori sul fronte politico, non fu contrastata adeguatamente da alcuno sul piano della cultura politica. Non vanno dimenticate, certamente, le grandi figure dei teologi e dei filosofi che continuarono l’elaborazione e l’approfondimento del pensiero cristiano, in opposizione costruttiva all’ateismo moderno – si pensi, tra tutti, alle gigantesche figure di Cornelio Fabro e di Michele Federico Sciacca. Questi Autori mostrarono le contraddizioni insanabili da cui erano affette le varie filosofie dell’immanenza ed additarono l’abisso nichilistico in cui esse facevano precipitare la ragione umana. Sul piano della cultura politica, però, queste grandi personalità non potevano essere udite. La ricchezza del loro insegnamento avrebbe fruttificato in tempi più lunghi. Né potevano essere immediatamente efficaci sul piano macrosociale e politico le voci di chi, riscoprendo l’inesauribile novità del messaggio cristiano e la fonte perenne di metafisica, anche sociale, che in tale messaggio si radica, avevano iniziato una seminagione tra i giovani destinata a germogliare più tardi: mi riferisco in particolare all’opera di don Luigi Giussani, che dava vita in quegli anni a Comunione e Liberazione, e di Giovanni Cantoni, che, già a partire dai primi anni ’60, estraeva dalla reazione giovanile contro il comunismo i futuri semi di Alleanza Cattolica. Queste voci si sarebbero manifestate socialmente più tardi e la loro levatrice storica sarebbe stata l’opera del Pontefice Giovanni Paolo II, il Grande.
Nel periodo oscuro degli anni ’50 e ’60 si eresse con autorità sul piano della cultura politica soltanto la figura di Augusto del Noce, che seppe diagnosticare filosoficamente le ragioni della condizione di minorità del pensiero di ispirazione cristiana di fronte all’immanentismo, rappresentato dalla linea che, preso l’inizio con Cartesio, si compendia tipologicamente nei nomi di Kant, Hegel e Marx. Egli seppe anche proporre alcuni princìpi essenziali per la rimessa in verticale della filosofia cristiana. Nel compiere quest’opera Del Noce rimase isolato: gli furono avversari implacabili tanto i comunisti cristiani, alla cui testa era Franco Rodano, divenuto vero maître à penser dei vertici del Partito Comunista Italiano, quanto i potentissimi eredi dell’azionismo, alla cui guida fu Norberto Bobbio, che paventavano con orrore la riproposizione di un modo filosofico di pensare che mantenesse aperto per la religione uno spazio pubblico e sociale, quanto i democratico-cristiani, attratti dal carisma sinistro di Giuseppe Dossetti, ormai completamente asserviti, soprattutto dopo l’ «apertura a sinistra» del 1964 e gli esiti mediatici ed ecclesiatici del Concilio Ecumenico Vaticano II, all’idea che il processo di secolarizzazione fosse non soltanto ineluttabile, ma altresì fosse un bene meritevole di essere perseguito. Da tutti costoro scaturì il più bieco ostracismo nei confronti di coloro che non si erano adeguati al pensiero unico ateistico e, in particolare, di Augusto Del Noce.

3. Il momento pratico dell’ateismo moderno.
Il fulcro del pensiero del filosofo nato a Pistoia sta nella convinzione che l’ateismo, caratterizzante le filosofie dell’immanenza, sia una perdita irreparabile per la ragione dell’uomo. La rinuncia alla dimensione verticale della ragione; l’oblio delle verità intelligibili; il rifiuto della trascendenza; il disprezzo per la metafisica – con la conseguente avversione ad Agostino e Tommaso, nonché a Platone e Aristotele – non esprimono tanto una offesa alla fede, quanto costituiscono soprattutto uno scacco della ragione. Con questa forte convinzione Del Noce si domandò quale fosse il motivo determinante dell’incontrastato dominio nell’universo culturale successivo alla guerra delle filosofie immanentistiche. Egli fornì al quesito una risposta illuminante: poiché le filosofie dell’immanenza sono perdenti sul piano concettuale – e sfociano in contraddizioni insanabili –, la loro vittoria può realizzarsi soltanto nella prassi, offuscando praticamente il bisogno, oltre che della fede, anche della filosofia. Il loro successo sta nel togliere praticamente il desiderio della verità; nel far scomparire l’istanza religiosa e quella filosofica; nel censurare le domande essenziali dell’uomo sulla sua origine e sul suo destino. Il marxismo, come filosofia della prassi che prescrive ai filosofi non di conoscere come è fatto il mondo, bensì di impegnarsi a cambiarlo, è, da questo punto di vista, il punto di arrivo delle filosofie immanentistiche. Del Noce comprese l’indissolubile congiunzione tra comunismo e dissoluzione etica del costume, anticipando con intelligente intuizione il dissolvimento del Partito Comunista nel partito radicale di massa, avvenuto dopo l’ ’89. E ciò non soltanto per la negazione della stessa idea di verità e di bene, in conseguenza del materialismo dialettico, che connota intrinsecamente il marxismo, ma anche per l’esigenza di comprimere l’aspirazione alla trascendenza attraverso la pratica dell’immoralità. Nel capitolo conclusivo de “Il problema dell’ateismo”, comparso nel 1964, che raccoglie e rielabora anche scritti degli anni precedenti, Del Noce ricorda che in Marx l’unica via per colpire la religione è quella di sopprimerne effettivamente le radici: “cioè non la via metafisica, e neppure quella storica o scientifica, ma la via politica: il che, tra l’altro, è a piena conferma della mia tesi sulla priorità del momento politico nell’ateismo” (p. 352). Da qui la tesi di Del Noce: “La rivoluzione che porta al comunismo non può essere realizzata che attraverso un’etica che ha il suo fondamento in una concezione dell’uomo assolutamente ateizzata e di cui d’altra parte l’adozione si impone come necessaria, perché l’alternativa è pensata come la barbarie radicale. Solo in questo senso mi pare si possa dire che la realizzazione del comunismo debba coincidere con la scomparsa del problema di Dio” (p. 352).

4. La fragilità delle risposte filosofiche all’ateismo pratico.
La tesi di Del Noce si articola in due momenti distinti. Il primo non è originale: il comunismo si può affermare soltanto attraverso la pratica di un’etica ateistica che cancelli il ricordo del problema di Dio. Il secondo aspetto è, invero, originale: l’etica materialistica deve imporsi perché, nel pensiero dei comunisti e di coloro che ne sono divenuti «compagni di strada», la sua alternativa non può non essere pensata come la barbarie radicale. L’acutezza del Maestro ha qui colto la radice dell’egemonia culturale del marxismo nell’Italia del secondo dopoguerra. Nel pensiero di Franco Rodano e di Giuseppe Dossetti tutte le letture filosofiche della modernità che hanno contrastato il marxismo sono sfociate nel fornire un sostegno o un contributo ai fascismi: ciò vale non soltanto per la linea idealistica più coerente, rappresentata dall’attualismo di Giovanni Gentile, ma anche per il neotomismo e per le varie forme dell’esistenzialismo spiritualista. Ma i fascismi, ricondotti dai Rodano e dai Dossetti, alla scuola di Antonio Gramsci di Palmiro Togliatti, a categoria unitaria ricomprendente tutte le filosofie estranee alla linea immanentistica inverata dal marxismo, hanno rivelato incontestabilmente la loro natura barbarica. Dunque, l’unica etica che contiene in sé gli anticorpi idonei a contrastare i fascismi è quella comunista. Questa la ragione per cui, nell’ideologia matura dei cattolici che hanno inteso il materialismo storico come ineluttabile positivo esito storico della modernità, l’adesione alla rivoluzione, nella forma ugualitaria proposta dal comunismo, si appalesa non come un contingente compromesso storico, bensì come necessaria sul piano sia etico che politico.
Del Noce esamina a fondo questa tesi, ammettendone la forza. Egli contraddice anzitutto la tesi comunista, azionista e cattolico-progressista sulla natura dei fascismi. Questa tesi è gravemente inaccurata sul piano filologico, nonché ideologicamente maliziosa. Del Noce non avrebbe mancato di approfondire questo problema, differenziando con precisione i vari fascismi tra loro e mettendone in luce le diverse fonti e le radicali divergenze, in specie rilevabili tra nazionalsocialismo e fascismo italiano. Inoltre, Del Noce non avrebbe mancato di chiarire che, se un elemento comune ai vari fascismi sussiste, questo consiste nell’accettazione modernista del relativismo etico applicato in principal modo alla teoria e alla prassi politica.
Del Noce, poi, afferma la necessaria soccombenza sia del liberalismo crociano sia del neotomismo espresso da Jacques Maritain rispetto al marxismo, per la loro debolezza intrinseca. Per Del Noce vanamente sia Croce, in campo laicistico, sia Maritain, in quello cattolico, hanno tentato l’oltrepassamento del marxismo (p. 356). Quanto a Croce, Del Noce pone l’accento sul fatto che per il filosofo liberale la riaffermazione del liberalismo dopo il marxismo dovrebbe presentarsi dissociata dal liberismo. Ma se accadesse questo il liberalismo finirebbe per identificarsi col conservatorismo, e, così amputato, verrebbe messo in crisi l’immanentismo che ne è alla base. Inoltre, la critica decisiva del marxismo alla società liberale non consentirebbe il ritorno alle filosofie inveratesi nel marxismo: dunque, l’oltrepassamento del marxismo dovrebbe “coincidere con la riscoperta di una linea di pensiero in cui Vico figura come iniziatore” (p. 358). Se si pensa all’importanza dell’incontro di Croce con Vico e all’interpretazione immanentistica che il filosofo napoletano ne ha dato nell’opera giovanile del 1911, si comprende come Del Noce suggerisca una riforma radicale del liberalismo crociano, al fine di liberarlo della soccombenza rispetto al marxismo: invece di leggere Vico alla luce degli idealisti tedeschi, occorrerebbe leggere l’anelito per i valori tradizionali di Croce (il “non possiamo non dirci cristiani”) secondo la correzione ricavabile dal pensiero di Giambattista Vico.
Quanto a Maritain, Del Noce coglie due fondamentali aporie nel suo pensiero. La prima consiste nel rovesciamento dell’antimoderno (Primauté du spirituel – 1927) nell’ultramoderno, che costituisce la parabola del suo sviluppo filosofico. La seconda consiste nella valorizzazione perfettistica del processo della modernità, correlativa al giudizio di decadenza, rifiutato dal secondo Maritain, inerente allo schema antimoderno. La democrazia diventò così, in Humanisme intégral, non più una possibile forma di governo, ma la forma migliore di Stato, come esito perfettistico di un processo positivo di sviluppo. L’aspetto perfettistico, che Del Noce vede presente nel Maritain ultramoderno come esattamente correlativo al giudizio di regresso dalla cristianità storica alla modernità, spiega la debolezza concettuale di Maritain e il necessario superamento del suo umanesimo democratico per opera della democrazia ugualitaria rappresentata dal marxismo.
V’è, poi, secondo Del Noce, una ulteriore ragione di debolezza del maritainismo, più grave della prima. Maritain inscrive il suo pensiero all’interno del neotomismo, che si costruisce avendo come avversario, entro le filosofie cristiane, l’ontologismo (p. 319). Nel quadro neotomista “la metafisica cristiana dell’età barocca, nella forma cartesiana, deve apparirgli come una pura decadenza e non come una risposta, sia pure inadeguata, a problemi nuovi (appunto, al sorgere all’ateismo) che S. Tommaso aveva ignorato, e ciò semplicemente perché ogni filosofo non può pensare che in una determinata situazione storica e contro determinati avversari” (p. 319).
Possono così cogliersi i due filoni cruciali del pensiero di Del Noce. Il primo, sul piano filosofico, consiste nell’insinuare elementi di discontinuità e di criticità nell’interpretazione, tipica del neo-tomismo, della filosofia moderna come un processo continuo di radicalizzazione dell’istanza soggettivistica in gnoseologia, di quella razionalistica in metafisica e di quella relativistica in etica. Del Noce non nega certamente che questi elementi siano dominanti e che si rivelino appieno nel trionfo dell’idealismo tedesco e nel suo rovesciamento marxista. Cerca, però, di rintracciare negli Autori moderni, a partire da Cartesio, quegli elementi che, diversamente orientati, avrebbero portato a esiti diversi e a una adeguata tematizzazione della trascendenza, nella ricerca della verità sul piano metafisico etico e giuridico.
Il secondo filone ha valenza prettamente politica. Del Noce cerca una soluzione in virtù della quale gli eredi del liberalismo, liberati dalle pretese totalizzanti dell’ideologia liberista e della filosofia immanentistica; gli eredi della dottrina sociale della Chiesa, liberati dal mito medievista dell’antimoderno e dal mito perfettista dell’ultramoderno; gli eredi del socialismo democratico, liberati dall’ideologia materialista e dal pensiero dialettico, possano insieme dar vita a una società alla cui base stiano valori oggettivi comuni e non negoziabili ad libitum dalla soggettività di ciascuno.

5. La linea filosofica teistica: in particolare, la rivalutazione di Cartesio.
Prima di passare a qualche considerazione sul significato della prospettiva politica, occorre soffermarsi sulla tesi filosofica. Del Noce, come si è detto, rileva filologicamente le tracce storiche di una linea filosofica che egli chiama teistica, rispetto a quella immanentistica e ateistica. I suoi Autori – si comprende con chiarezza dagli accenni contenuti nei suoi scritti – sono principalmente Giambattista Vico e Antonio Rosmini. Basti considerare che, preannunciando Egli nell’introduzione al volume “Riforma cattolica e filosofia moderna” una trilogia dimostrativa della sua tesi, dichiara di voler dedicare il terso libro a Giambattista Vico. Basti rilevare, soprattutto, il suo continuo riferimento alla filosofia che egli – forse inopportunamente – chiama ontologistica. Non si tratta, a mio sommesso avviso, di un riferimento all’ontologismo filosofico in senso proprio, ma del riferimento all’esigenza filosofica di un duplice recupero sul piano concettuale. Anzitutto di un recupero, come base indispensabile del filosofare, delle evidenze del senso comune. La conoscenza non comincia dal nulla; ma dall’esperienza immediata di verità che sono comuni a ogni uomo, in ogni tempo e in ogni luogo. Senza l’esperienza immediata del mondo, dell’io, della distinzione tra io e mondo; senza l’esperienza della libertà e della responsabilità; senza l’evidenza del trascendimento dell’io rispetto al mondo, il cominciamento del filosofare non sarebbe possibile
In secondo luogo, di un recupero dell’idea che, senza la partecipazione dello spirito divino alla mente umana, anzi all’uomo intero, composto di anima e di corpo, l’uomo non sarebbe in grado di conoscere veramente le verità metafisiche e naturali. Senza la vis veri, partecipata da Dio all’uomo, secondo la terminologia di Vico, l’uomo non conoscerebbe alcunché in modo intelligibile, ma sarebbe assimilabile agli altri esseri animati.
A questi indispensabili recuperi concettuali, Del Noce aggiunge due altri temi. Il primo è l’esigenza di un rapporto della filosofia con la storia. Una filosofia «anistorica», come egli la definisce nel saggio “Il problema Pascal e l’ateismo contemporaneo”, raccolta nel Il problema dell’ateismo, (p. 208), è scarsamente proficua. Il secondo è il tema antiperfettistico, ove il perfettismo è definito, alla sequela di Antonio Rosmini, come l’atteggiamento utopistico che intende realizzare nella città terrena la città eterna. Questi due temi, allo stesso modo dei recuperi concettuali delle evidenze del senso comune e del conformarsi dell’uomo conoscente alle verità oggetto di conoscenza in virtù di una reminiscenza nella mente umana di verità impresse da Dio fin dall’origine, sono sviluppati da Del Noce in una sorta di contro-storia della filosofia moderna, ove egli scorge in filigrana una linea di pensiero non inficiata dal vizio immanentistico e, dunque, non superata dall’idealismo hegeliano e dal suo rovesciamento marxista. In questo quadro cruciale acquista rilievo la rivalutazione della Riforma cattolica e, sul piano filosofico, la lettura di Cartesio in una chiave diversa rispetto a quella di capostipite del soggettivismo moderno e del fautore del dubbio radicale. La base del convincimento di Del Noce si ricava dall’individuazione dell’avversario teoretico della filosofia di Cartesio nel pensiero libertino, come esito ultimo del processo naturalistico rinascimentale (p. 219). Del Noce vede la scaturigine del filosofare di Cartesio nell’esperienza della libertà, ove il dubbio metodico “si manifesta come operazione mirante a rovesciare il dubbio scettico” (p. 219). Prosegue Del Noce: “Nell’affermazione della mia trascendenza al mondo, che la mia capacità di metterlo in dubbio rende manifesta, è la denuncia del dogmatismo naturalistico, sottinteso al dubbio scettico” (p. 219). Il rovesciamento della posizione libertina si sarebbe accompagnata in Cartesio a una concessione esiziale. Al carattere politico del pensiero libertino Cartesio oppose “una separazione netta di filosofia e di religione dalla politica” (p. 220): da qui il giudizio di «filosofia monastica» che Giambattista Vico dette della filosofia di Cartesio. Il punto di partenza «Cartesio» è, dunque, per Del Noce, non necessariamente di tipo soggettivistico e razionalistico: la struttura significativa del suo pensiero sarebbe, nell’accettazione dell’intuizione fondamentale della Riforma Cattolica, di combattere il libertinismo, erede dell’eresia rinascimentale, nonché il cupo pessimismo negatore della libertà, sviluppatosi in ambiente protestante. Certo, Del Noce non nega l’ambiguità essenziale cartesiana, ma sottolinea che “Bontà divina, libertà umana, correlatività tra l’affermazione di Dio e quella dei valori naturali, sono pure i momenti essenziali della filosofia di Cartesio” (p. 232).
La preservazione della libertà umana, di contro alla sua negazione o al suo oblio in ambiente protestante, sarebbe stato il legato prezioso con cui, attraverso la mediazione di Nicole Malebranche, Giambattista Vico avrebbe elaborato la Scienza Nuova, ove libertà umana e Provvidenza divina si incontrano meravigliosamente e la Provvidenza estrae continuamente il bene dalla storia degli uomini, intrisa di azioni buone e di azioni malvagie.

6. La linea filosofica teistica: la filosofia di Vico.
La linea filosofica teistica focalizzata da Del Noce si muove lungo il duplice asse costituito, da un lato, dalla preservazione della libertà umana e dal riconoscimento della bontà di Dio e della sua creazione, che gli uomini hanno sfigurato sin dall’origine e continuano a sfigurare con le loro colpe attuali, ma che rimane fondamentalmente buona, e, da un altro lato, dalla reminiscenza del vero, del bene, del giusto e del bello nella mente dell’uomo, siccome creata buona da Dio. L’opera di Vico si staglia al centro di questo processo di filosofia teistica. In Vico, come sopra detto, la Provvidenza divina non è di ostacolo alla libertà umana; l’uomo è capace di conoscere il vero e di praticare il bene e il giusto e di contemplare il bello per una reminiscenza del vero buono giusto eterno che la creatura ha inscritta nella sua natura, siccome creata a immagine e somiglianza di Dio. Vico, inoltre, non è né decadentista né perfettista; libero quant’altro mai sia dai miti dell’età dell’oro sia dai veleni utopistici, concepisce la storia realisticamente e non ideologicamente, come luogo dello scontro tra coloro che, pur nella fragilità della natura decaduta, mantengono in sé stessi l’impronta divina della vis veri, e coloro che, per la barbarie dei sensi o per la barbarie della riflessione scettica, lasciano che si offuschi in se stessi, sin quasi a cancellarla, l’immagine e la somiglianza di Dio. Vico, però – e per questo aspetto egli è particolarmente caro a Del Noce – svolge la riflessione filosofica partendo dall’uomo calato nella storia; egli, pertanto, che non è perfettista né decadentista, descrive i progressi e i regressi delle civiltà; non minimizza le differenze qualitative delle une rispetto alle altre e trae dalla storia insegnamenti perenni in ordine a ciò che a tutti gli uomini è comune, nonostante le divisioni e i cambiamenti, mettendo in luce la grande verità dell’unità del genere umano. La storia dei popoli è per Vico, accanto e più ancora che la natura, il gran libro in cui si possono riconoscere le verità perenni che costituiscono la traccia nella storia del vero del buono del giusto eterno.
Del Noce lamenta che la linea filosofica teistica, splendidamente rappresentata da Vico, sia stata messa in disparte, ignorata completamente da Hegel e, perciò, non trapassata nella filosofia dell’ ‘800 e del ‘900, tanto che la riproposizione del grandioso affresco del filosofo napoletano venne inscritta da Croce e da Gentile all’interno del quadro idealistico. Questa linea – rileva Del Noce - ignorata dal marxismo, è irriducibile alle filosofie che il marxismo ha preteso di inverare. Questa linea trova un punto alto di espressione in Antonio Rosmini, che unisce il saldo realismo cristiano, fondato sull’esperienza immediata della natura umana decaduta – il peccato originale come rivelazione confermativa di una evidenza che la ragione umana riconosce nella storia – con la ferma convinzione che nell’uomo resta impressa, nonostante il peccato, la traccia indelebile della sua origine da Dio: traccia che rende possibile la conoscenza che Dio è. Del Noce chiama questa linea di pensiero ontologista, anche se riconosce l’improprietà del termine, perché non tanto questo pensiero sviluppa l’argomento ontologico della deduzione dell’esistenza di Dio dall’idea di Dio nell’uomo, quanto, piuttosto, perché insiste sulla reminiscenza di Dio nella coscienza umana, che costituisce l’inizio della conoscenza di Dio e delle realtà intelligibili. Realtà, invece, assolutamente inconoscibili nella linea di pensiero immanentistica, vuoi idealistica vuoi empirista.
Del Noce, che è attratto particolarmente dal rapporto tra filosofia e storia, tra riflessione concettuale e ricadute politico-sociali, apprezza in Rosmini soprattutto quell’attitudine realista, insieme intrisa di attenzione per la storia, che egli chiama «antiperfettismo». Nel suo contrario , il «perfettismo», Rosmini vede “quel sistema che crede possibile il perfetto nelle cose umane, e che sacrifica il bene presente alla immaginata futura perfezione”, a cui è inerente sia la soppressione della libertà, perché altrimenti, secondo l’acuto rilievo di Rosmini “l’ideale raggiunto sarebbe uno stato di perfezione instabile esposto a tutti gli attentati degli individui alieni, per una ragione o per un’altra, da quell’ideale di perfezione”; sia la svalutazione della storia passata e la deificazione del futuro; sia il rifiuto dell’idea del peccato originale; sia la riduzione dell’individuo alle sue relazioni sociali.

7. Il significato storico-politico dell’opera di Del Noce.
Un ultimo rilievo va svolto, come anticipato, con riguardo al significato politico dell’opera di Augusto Del Noce nella particolare temperie storica del secondo dopoguerra italiano, nel periodo che va dal 1945 al 1989, in particolare all’inizio degli anni ’80, quando la prospettiva storico-politica fino ad allora egemone venne rovesciata grazie all’insegnamento e all’azione del Pontefice Giovanni Paolo II, il Grande. L’importanza di Del Noce, invero, a mio sommesso avviso, va ravvisata, più che sul piano della speculazione filosofica, sulla stigmatizzazione critica delle ricadute culturali, politiche e sociali delle filosofie immanentistiche moderne, di cui il marxismo, anche e soprattutto nella versione gramsciana, voleva essere l’ «inveramento». Del Noce mise l’accento del «divieto di fare domande», in cui sfociarono concordanti comunismo, azionismo e progressismo cristiano. Poiché la storia avrebbe rivelato il fallimento dell’antimoderno nel suo farsi sostegno della barbarie fascista, ogni domanda autenticamente filosofica avrebbe dovuto essere censurata. Nell’ottica del sospetto, che caratterizza il pensiero moderno, soprattutto nella linea Marx, Nietsche, Freud, chi avesse riproposto il tema della trascendenza, della conoscenza delle realtà intelligibili e dell’azione eticamente orientata alla luce di princìpi permanenti avrebbe surrettiziamente perseguito lo scopo, consapevolmente o oggettivamente, di risvegliare i fascismi. Di qui la censura nei confronti della filosofia e il «divieto di fare domande» sugli esiti atroci delle filosofie immanentistiche.
Augusto Del Noce riaprì un orizzonte che sembrava definitivamente chiuso. Per Del Noce le filosofie dell’immanenza, come è vero e come è giusto ancora oggi ripetere, avevano dato origine, oltre che al liberalismo e al comunismo, anche ai fascismi. La linea filosofica teistica non era stata coinvolta dai superamenti e dai rovesciamenti dell’immanentismo. A questa linea filosofica Del Noce suggeriva di ritornare, non tanto per elaborare una nuova scolastica pedissequamente destinata a ripetere gli antichi, quanto per riproporre le domande filosofiche sull’origine e sul destino dell’uomo, sull’esistenza di Dio, sull’esistenza di valori permanenti nella storia, sull’etica fondata sul bene e non sull’utile e sul diritto naturale.
In un’epoca oscura Egli fu segno di contraddizione; fiaccola nella notte; promessa dell’alba. Se i suoi giudizi filosofici non sempre sono condivisibili, la sua testimonianza a favore della verità sempre è stata esemplare. Per questo mi è particolarmente grato ricordarne la memoria nel centenario della nascita, raccomandando la sua anima a Dio e raccomandando a Lui di vegliare per il rinnovamento della filosofia cattolica e di pregare per l’instaurazione di una società cristiana a misura di uomo, secondo il piano di Dio.

Mauro Ronco

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