lunedì 17 maggio 2010

Comunicazione di Mons. Prof Antonio Livi: Del Noce e Gilson

Augusto Del Noce è tra i pochissimi studiosi italiani che hanno conosciuto, capito e apprezzato il pensiero di Etienne Gilson; io, che al pensatore francese ho dedicato tanti studi e tante iniziative di tipo “promozionale”, considerandolo il mio primo maestro1, ricordo che negli anni Settanta mi sorprese molto e mi rallegrò ancora di più vedere come Augusto Del Noce fosse capace di capire Gilson e di entrare in piena sintonia di pensiero con lui (indubbiamente, più di chiunque altro in Italia). Ma quale fu il punto di contatto tra il filosofo francese e quello italiano? Fu proprio il metodo filosofico, il modo specifico di fare filosofia in rapporto alle motivazioni profonde che guidavano i due filosofi nel loro impegno intellettuale e nelle scelte di campo che erano chiamati a fare in un mondo come quello di oggi. E qui viene a proposito il racconto di un episodio della biografia di Del Noce che può sembrare di poco conto (si tratta, tutto sommato, di un evento occasionale) ma è tipico di quel modo di fare filosofia che caratterizza i “filosofi della libertà e dell’esistenza”.

Lo so per certo, per ammissione dello stesso Del Noce, che l’incontro con Gilson fu occasionale; a differenza di quello che feci io – che andai a cercare Gilson e lo frequentai a lungo - , Del Noce non sentì particolare interesse per il collega francese (pur essendo la Francia la sua patria d’adozione dal punto di vista culturale) e lo incasellò, come facevano tutti in Italia in quegli anni (e ancora oggi), nell’innocua casella degli “storici della filosofia”. Ma vedendo in libreria l’ancora non tradotto saggio su Réalisme thomiste et critique de la connaissance, superato l’iniziale fastidio che tutti i non tomisti avvertono di fronte all’aggettivo “tomista”, Del Noce lesse il libro di Gilson con l’attenzione che gli era solita e la penetrazione straordinaria di cui lui solo era capace. La conclusione fu che l’argomentazione gilsoniana lo convinse pienamente, a tal punto da dire – da allora in poi – che Gilson era colui che meglio di chiunque altro aveva capito l’opposizione polare tra realismo e immanentismo, e che solo la sua posizione – il “realismo metodico” - poteva vantare un’assoluta coerenza logica. Alla fine, Del Noce non esitava a scrivere che Gilson era a suo giudizio il più grande pensatore del Novecento, da affiancare – perché di pari importanza – a Giovanni Gentile, il quale però aveva portato la filosofia e la politica nel vicolo cieco del più coerente immanentismo, a quel “suicidio del pensiero” che Del Noce riteneva strettamente collegato al “suicidio della rivoluzione”2.

Un comune metodo di pensiero


Ma qual era il motivo profondo di tanto entusiasmo? Che cosa aveva determinato tanta sintonia speculativa tra i due pensatori? Si penserà che essi avevano in comune il lavoro storiografico, adoperato come base per gli sviluppi teoretici in ogni direzione (la gnoselogia, la teologia naturale, l’etica, la politica). Questo è vero, ma spiega solo in parte la sintonia tra i due filosofi. Non dimentichiamo infatti che gli studi di Del Noce furono tutti in materia di filosofia moderna (da Malebranche a Gioberti, e poi da Descartes a Rosmini) e di filosofia contemporanea (da Giuseppe Renzi a Lev Sestov, da Giuseppe Capograssi a Enrico Castelli), mentre gli studi di Gilson furono – dopo le iniziali analisi della filosofia cartesiana - tutti in materia di filosofia medioevale. Non è quindi la materia di studio l’elemento comune.

L’elemento comune è invece il metodo del pensiero. Perché sia Gilson che Del Noce intendono la filosofia come comprensione profonda e globale del mondo in cui vivono e operano, de questo attraverso l’individuazione delle radici storiche che rendono ragione delle convinzioni teoretiche e delle opzioni pratiche operanti nel loro mondo. Il mondo di entrambi è stato quello dell’Occidente cristiano (scristianizzato), nel quale operano due diverse opzioni intellettuali: da una parte, l’opzione del realismo metafisico (che parte da Vico e giunge fino a Bergson, passando da Rosmini e Newman), dall’altra quella dell’immanentismo (che ha inizio con il razionalismo cartesiano e si conclude con l’idealismo di Hegel e di Gentile). Il realismo metafisico è un pensiero sostanziato di logica aletica: esso infatti ancora la verità alla trascendenza gnoseologica e ne individua la fonte nella Trascendenza ontologica, vedendo pertanto nella realtà creata una razionalità che ha origine trascendente (l’idea divina) e per questo è norma per la verità dell’agire umano (la “legge naturale”); questa opzione, minoritaria ai nostri giorni, si riconosce nella tradizione classica e medioevale ma è anche fiera della propria capacità di creare nuove prospettive, ivi compreso l’ideale politico o “utopia” (Tommaso Campanella, Thomas More) e l’ermeneutica storica come “scienza nuova” (Giambattista Vico). Invece l’immanentismo (tanto nella versione iniziale, che era stata quella razionalistica, che nella versione finale, che fu quella idealistica) è il pensiero della rivoluzione, della rottura con la tradizione, dell’abolizione di ogni fondamento oggettivo per l’etica, della pretesa di dare origine a una nuova umanità e a un nuovo mondo, come opera delle mani dell’uomo. Ogni aspetto teoretico e pratico dell’immanentismo – la secolarizzazione, l’ateismo, il relativismo o il formalismo morale, il nichilismo, la deriva totalitaria - ha la sua giustificazione ultima nell’opzione gnoseologica, in quella che Carlos Cardona chiamava l’opzione intellettuale; per contro, ogni critica di quelle forme di immanentismo che prima citavo non può avere successo se non giunge a criticare il nucleo gnoseologico dell’opzione. E’ proprio per questo motivo che il problema gnoseologico – con la sua intrinseca dimensione storica - è centrale nel capire e nel risolvere i problemi del nostro tempo: è appunto ciò che Del Noce ha compreso e che poi ha ritrovato nella lettura delle opere di Gilson, a cominciare da Réalisme thomiste et critique de la connaissance.

Il metodo di Gilson consiste nell’individuare nelle idee filosofiche una necessità intrinseca, una necessità che costituisce una vera e propria legge storica, la legge che regola lo sviluppo delle idee. I filosofi hanno una libertà di azione quasi illimitata: possono scegliere il campo della loro ricerca, il metodo di indagine, il rapporto con la tradizione, il modo o i modi per esprimere le conclusioni del loro lavoro e per far accettare agli altri le loro convinzioni… Tutto è oggetto di libera scelta, meno gli esiti speculativi delle idee filosofiche che si trovano ad adottare. Le idee filosofiche portano necessariamente a certi esiti, indipendentemente dalle intenzioni e dalle pretese del filosofo che le adotta. Descartes, per esempio, adottò l’idea della certezza matematica come modello della scienza in generale e della filosofia in particolare, e non poteva derivarne che un sistema soggettivistico di tipo razionalistico, dove la realtà del mondo è mediata dalle idee chiare e distinte e si perdono irrimediabilmente l’unità dell’uomo, la legge naturale, la trascendenza di Dio: si perdono proprio quelle dimensioni metafisiche del reale che pure erano l’essenza delle categorie filosofiche scolastiche utilizzate da Descartes nel costruire il suo sistema (la categoria di creazione del mondo da parte di Dio, la categoria di anima immortale, la categoria di libero arbitrio) . Così pensò e scrisse Gilson, e così pensò e scrisse per conto suo anche Del Noce, il quale però vide nel sistema cartesiano anche un’idea (agostiniana) che avrebbe potuto avere esiti diversi, di tipo realistico3.

La centralità dell’esperienza storica


Come possa questa metodologia storiografica sfuggire all’accusa di idealismo – o, meglio, di storicismo idealistico – è presto detto. La necessità intrinseca dello sviluppo delle idee filosofiche non risponde, in Gilson e in Del Noce, all’apriorismo astratto delle metafisiche idealistiche o dello storicismo positivistico: risponde invece all’osservazione attenta e penetrante della realtà empirica in tutta la sua complessità, risponde ai protocolli dell’esperienza storica fedelmente applicati all’ermeneutica storiografica. In Gilson, come in Del Noce, non sono le tesi teoriche – siano esse metafissiche, o logiche, o socio-economiche – a determinare l’interpretazione della storia della filosofia; nei due grandi filosofi del Novecento la metodologia storiografica è davvero autonoma da presupposti arbitrari: essa si fonda su induzioni di carattere schiettamente sperimentale, arriva cioè a stabilire delle leggi universali sulla base di fatti accuratamente esaminati e valutati attraverso il confronto con fatti analoghi. Alla fine, è l’esperienza storica - ossia ciò che risulta dall’indagine storiografica, applicando ai fatti le regole della corretta induzione – a determinare l’orientamento speculativo, che proprio per questo risulta inattaccabile sul piano della dialettica filosofica (è invece attaccabile, come di fatto fu attaccato, sul piano della polemica ideologica). Si pensi alla forza con cui Gilson ha sempre difeso la sua nozione di “filosofia cristiana” o di “realismo”; si pensi poi alla forza con cui Del Noce ha difeso la sua nozione di “ontologismo” e ha scoperto la comune radice di fascismo (Giovanni Gentile) e di comunismo (Antonio Gramsci), potendo così proporre un progetto politico alternativo ad entrambi4; si pensi infine al rifiuto – netto e inequivocabile in entrambi – di compromessi teoretici tra cristianesimo e marxismo e di strategie comuni tra cattolici e comunisti.

Per concludere parlando direttamente ed esclusivamente di Del Noce, voglio far notare – per chi conosce bene il suo pensiero e le sue prese di posizione su molteplici argomenti – come il realismo politico di cui è stato campione e maestro si configuri talvolta come sorprendente capacità di svolgere da filosofo una funzione che senza esitazioni chiamerei “profetica”: è la funzione critica di chi denuncia mali presenti e prospettive future senza lasciarsi intimorire dall’impopolarità, senza paura di sembrare un visionario (in un mondo di idealisti, consapevoli e inconsapevoli, un vero realista può sembrfare un visionario), animato soltanto dall’amore per la verità, forte soltanto della certezza di dire il vero. Ciò dipende - ne sono certo – direttamente e totalmente dalla forza insuperabile della logica, quando essa deriva dalla realtà (conosciuta), e alla realtà (da valutare) viene applicata con tutto il rigore della razionalità libera da condizionamenti ideologici. Un esempio davvero significativo: prima ancora che avvenisse il crollo del comunismo mondiale (almeno in Europa), e prima ancora che il capitalismo mondiale cominciasse a riempire il vuoto lasciato dal comunismo con i suoi sistemi di vita (secolarizzazione, consumismo, edonismo, immoralismo), Augusto Del Noce prevedeva i danni che ne sarebbero derivati, quegli stessi danni che molti oggi lamentano, e tra questi anzitutto il papa Giovannni Paolo II. Domenico Settembrini racconta che Del Noce gli disse: “Voi sapete quanto io detesti il comunismo: ebbene, se l’unica alternativa – cosa che non credo – dovesse essere la società consumistica, sceglierei il comunismo”5. Si potrebbe dire: sono parole di un utopista; come si fa a opporsi a un processo ineluttabile come quello che ha portato e sempre di più porterà all’egemonia del sistema capitalistico? Come si fa ad andare contro la globalizzazione? Ebbene: Augusto Del Noce fu creduto un sognatore quando prevedeva il crollo del comunismo, e invece il suo pensiero si rivelò l’espressione del più acuto realismo politico, perché aveva saputo leggere nella realtà la legge che regola le idee politiche e le fa vivere o morire, facendo vivere o morire con esse i sistemi di potere che se ne servono; chi può essere certo che egli non abbia visto chiaro anche nel caso del capitalismo consumistico? Non sarà anch’esso condannato a crollare, perché in conflitto con la coscienza cristiana (questo per quanto riguarda le nazioni di antica tradizione cristiana, dove la scristianizzazione non avrà mai una vittoria completa e definitiva) ma anche e soprattutto (e questo vale per ogni parte del mondo) perché contrario alla legge naturale, alla natura dell’uomo e al bene comune della società?

Antonio Livi

Nessun commento:

Posta un commento