giovedì 4 novembre 2010

Comunicato stampa Conferenza "La Procreazione è finita: dalla legge 194 all'aborto-fai-da-te"


venerdì 5 novembre · 21.15 - 23.00

Sala sinodale dell'antico Palazzo dei Vescovi

Piazza del Duomo

Pistoia

Interverranno:Dott Renzo Puccetti Avv. Aldo Ciappi



L'Associazione Sant'Ignazio di Loyola e il Comitato per il Centenario della Nascita di Augusto del Noce, in collaborazione con l'Associazione John Locke, l'Associazione Madonna dell'Umiltà e con Alleanza Cattolica, hanno deciso di organizzare una conferenza sull'aborto e sulle pillole abortive. La decisione nasce dal fatto che questo è il tipico argomento riguardo al quale pensiamo di sapere tutto, ma in realtà le informazioni che abbiamo, essendo disparate, frammentarie e provenienti da un'infinità di fonti diverse e che si contraddicono l'una con l'altra, ci fanno sapere ben poco del problema.Infatti tendiamo sempre a sovrapporre gli aspetti tecnico-scientifici, tecnico-giuridici e etici. Cosicchè tutti pensano di sapere cos'è l'aborto, come viene praticato, come viene regolato dalla legge, quanto viene praticato e, soprattutto, quanto viene maggiormante praticato e da chi dopo la legge 194, cos'è la ru486, quali sono i suoi effetti, qual è la regolamentazione legislativa, quali sono e di chi sono in realtà gli interessi da tutelare.

Parlando con la gente vedo invece che questi aspetti sono per lo più ignorati, con la conseguenza che il giudizio morale che viene dato sulla pratica dell'aborto e della ru486 e sulla loro regolamentazione è compeltamente sfalsato e quindi ideologizzato.La conferenza si propone perciò di chiarire gli aspetti medici e giuridici e di fornire delle statistiche, in modo da dare una corretta informazione del problema, dato che l'aspetto conoscitivo precede sempre quello etico e che una scelta, nella vita privata e nella vita politica, è veramente libera solo se è basata su giuste informazioni.La Conferenza si terrà nella Sala sinodale dell'antico Palazzo dei Vescovi in Piazza del Duomo a Pistoia, gentilmente concessa dalla Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, venerdì 5 novembre alle ore 21,15; interverranno il Dott Renzo Puccetti e l'Avv. Aldo Ciappi di Scienza e Vita - Pisa e Livorno.

lunedì 17 maggio 2010

Del Noce, Vico e l'ateismo. La relazione di Mauro Ronco

La linea Vico-Rosmini come risposta all’ateismo nel pensiero di Augusto Del Noce
Mauro Ronco

1. L’affresco storico.
Non si può comprendere il pensiero filosofico e storico di Augusto Del Noce se non lo si cala all’interno del suo tempo e dei problemi politici che Egli si trovò a vivere con una partecipazione piena e accorata, tanto più intensa quanto più irrimediabile gli appariva lo sgretolamento di ciò che era rimasto del meraviglioso edificio della civiltà cristiana, pur dopo gli sfregi arrecati dalla rivoluzione detta francese e dalla sua versione risorgimentale italiana.
Egli, avendo vissuto la giovinezza e la maturità scientifica nel periodo più acuto del dominio delle ideologie totalitarie, poté constatare passo dopo passo lo stritolamento progressivo delle istituzioni, del costume e dell’etica pubblica ispirata al cristianesimo per opera del totalitarismo nazista e del comunismo. Questi regimi e queste ideologie, pur lottando ferocemente e all’ultimo sangue gli uni contro gli altri, furono sinistramente uniti nel distruggere le vestigia della civiltà cristiana e nell’impedire con la violenza la possibilità di ri-presentazione efficace dell’ideale di vita cristiano.
Augusto Del Noce non fu mai disposto a transigere sui princìpi e mai rinunciò alla idea che soltanto il ritorno alla dottrina politica e sociale cristiana avrebbe consentito la cura delle società malate dell’Occidente, affinché le stesse potessero nuovamente contribuire, come nei secoli della Cristianità, al progresso del mondo intero. Per questo suo inflessibile attaccamento ai princìpi Del Noce fu sempre malvisto dai poteri forti e dagli stessi costantemente emarginato.
Negli anni precedenti all’esplosione della seconda guerra mondiale Egli, influenzato dal pensiero di Jacques Maritain, come la gran parte della gioventù studiosa cattolica del tempo, incerto tra i motivi antimoderni e ultramoderni della sua filosofia e delle sue ricadute politiche, partecipò all’esperienza culturale della «sinistra» cristiana, avvicinandosi alle posizioni rappresentate, nell’ultimo tratto del decennio ’30-‘40’, da Felice Balbo e Franco Rodano. Dopo la guerra, Egli, approfondendo il pensiero di Jacques Maritain, si staccò vigorosamente dalla «sinistra» cristiana e ne divenne il più acuto e intransigente critico, guadagnandosi così il disprezzo e l’emarginazione da parte degli eredi, culturali e politici, di quella «sinistra». Costoro, sia all’esterno che all’interno della Democrazia Cristiana, sconfitti dall’evento prodigioso del 18 aprile 1948, che, sotto l’impulso spirituale del Pontefice Pio XII, di venerata memoria, e la protezione della Vergine Santissima, aveva reso impossibile il patto di governo comune tra le forze cattoliche e quelle comuniste, operarono uniti sul piano politico per la secolarizzazione della società. A livello culturale si industriarono di trovare le ragioni di incontro tra la fede cristiana e il pensiero ateistico moderno, soprattutto nell’espressione logicamente definitiva del marxismo. E’ impossibile in questa sede esaminare il percorso sopraccennato. Basti qui dire che questo obiettivo, sul piano politico, filosofico e teologico, fu portato fino alle estreme conseguenze per tutto il corso della cosiddetta prima repubblica, fino alla caduta del muro di Berlino nel 1989.
Nell’arengo politico i cattolici che non avevano reciso completamente il legame con la dottrina sociale della Chiesa – gli eredi di don Luigi Sturzo, tra cui, in particolare, Alcide De Gasperi, con una parte della Democrazia Cristiana – furono via via esclusi dai posti di comando del partito, con sempre maggiore determinazione a partire dalla morte dello statista trentino nel 1954. I Comitati civici guidati dal Prof. Luigi Gedda, protagonisti della vittoria del 1948, che costituivano il canale di trasmissione tra la cultura cristiana e la politica attiva, furono emarginati. Negli organi dirigenti del partito gli eredi di don Sturzo, pur maggioritari nei gruppi parlamentari, divennero una ridotta minoranza.

2. Le condizioni di minorità della cultura cattolica nel lungo dopoguerra italiano.
La progressiva erosione della dottrina sociale della Chiesa fu contrassegnata dalla sua sostituzione con l’ideologia detta «democratica». Dietro l’enfatico entusiasmo per la Costituzione repubblicana del 1948, questa ideologia, facendo proprio il giudizio positivo circa la ineluttabilità storica del materialismo storico, aderiva al processo di secolarizzazione della vita etica, politica e sociale. L’ideologia «democratica», se trovò pochi e deboli oppositori sul fronte politico, non fu contrastata adeguatamente da alcuno sul piano della cultura politica. Non vanno dimenticate, certamente, le grandi figure dei teologi e dei filosofi che continuarono l’elaborazione e l’approfondimento del pensiero cristiano, in opposizione costruttiva all’ateismo moderno – si pensi, tra tutti, alle gigantesche figure di Cornelio Fabro e di Michele Federico Sciacca. Questi Autori mostrarono le contraddizioni insanabili da cui erano affette le varie filosofie dell’immanenza ed additarono l’abisso nichilistico in cui esse facevano precipitare la ragione umana. Sul piano della cultura politica, però, queste grandi personalità non potevano essere udite. La ricchezza del loro insegnamento avrebbe fruttificato in tempi più lunghi. Né potevano essere immediatamente efficaci sul piano macrosociale e politico le voci di chi, riscoprendo l’inesauribile novità del messaggio cristiano e la fonte perenne di metafisica, anche sociale, che in tale messaggio si radica, avevano iniziato una seminagione tra i giovani destinata a germogliare più tardi: mi riferisco in particolare all’opera di don Luigi Giussani, che dava vita in quegli anni a Comunione e Liberazione, e di Giovanni Cantoni, che, già a partire dai primi anni ’60, estraeva dalla reazione giovanile contro il comunismo i futuri semi di Alleanza Cattolica. Queste voci si sarebbero manifestate socialmente più tardi e la loro levatrice storica sarebbe stata l’opera del Pontefice Giovanni Paolo II, il Grande.
Nel periodo oscuro degli anni ’50 e ’60 si eresse con autorità sul piano della cultura politica soltanto la figura di Augusto del Noce, che seppe diagnosticare filosoficamente le ragioni della condizione di minorità del pensiero di ispirazione cristiana di fronte all’immanentismo, rappresentato dalla linea che, preso l’inizio con Cartesio, si compendia tipologicamente nei nomi di Kant, Hegel e Marx. Egli seppe anche proporre alcuni princìpi essenziali per la rimessa in verticale della filosofia cristiana. Nel compiere quest’opera Del Noce rimase isolato: gli furono avversari implacabili tanto i comunisti cristiani, alla cui testa era Franco Rodano, divenuto vero maître à penser dei vertici del Partito Comunista Italiano, quanto i potentissimi eredi dell’azionismo, alla cui guida fu Norberto Bobbio, che paventavano con orrore la riproposizione di un modo filosofico di pensare che mantenesse aperto per la religione uno spazio pubblico e sociale, quanto i democratico-cristiani, attratti dal carisma sinistro di Giuseppe Dossetti, ormai completamente asserviti, soprattutto dopo l’ «apertura a sinistra» del 1964 e gli esiti mediatici ed ecclesiatici del Concilio Ecumenico Vaticano II, all’idea che il processo di secolarizzazione fosse non soltanto ineluttabile, ma altresì fosse un bene meritevole di essere perseguito. Da tutti costoro scaturì il più bieco ostracismo nei confronti di coloro che non si erano adeguati al pensiero unico ateistico e, in particolare, di Augusto Del Noce.

3. Il momento pratico dell’ateismo moderno.
Il fulcro del pensiero del filosofo nato a Pistoia sta nella convinzione che l’ateismo, caratterizzante le filosofie dell’immanenza, sia una perdita irreparabile per la ragione dell’uomo. La rinuncia alla dimensione verticale della ragione; l’oblio delle verità intelligibili; il rifiuto della trascendenza; il disprezzo per la metafisica – con la conseguente avversione ad Agostino e Tommaso, nonché a Platone e Aristotele – non esprimono tanto una offesa alla fede, quanto costituiscono soprattutto uno scacco della ragione. Con questa forte convinzione Del Noce si domandò quale fosse il motivo determinante dell’incontrastato dominio nell’universo culturale successivo alla guerra delle filosofie immanentistiche. Egli fornì al quesito una risposta illuminante: poiché le filosofie dell’immanenza sono perdenti sul piano concettuale – e sfociano in contraddizioni insanabili –, la loro vittoria può realizzarsi soltanto nella prassi, offuscando praticamente il bisogno, oltre che della fede, anche della filosofia. Il loro successo sta nel togliere praticamente il desiderio della verità; nel far scomparire l’istanza religiosa e quella filosofica; nel censurare le domande essenziali dell’uomo sulla sua origine e sul suo destino. Il marxismo, come filosofia della prassi che prescrive ai filosofi non di conoscere come è fatto il mondo, bensì di impegnarsi a cambiarlo, è, da questo punto di vista, il punto di arrivo delle filosofie immanentistiche. Del Noce comprese l’indissolubile congiunzione tra comunismo e dissoluzione etica del costume, anticipando con intelligente intuizione il dissolvimento del Partito Comunista nel partito radicale di massa, avvenuto dopo l’ ’89. E ciò non soltanto per la negazione della stessa idea di verità e di bene, in conseguenza del materialismo dialettico, che connota intrinsecamente il marxismo, ma anche per l’esigenza di comprimere l’aspirazione alla trascendenza attraverso la pratica dell’immoralità. Nel capitolo conclusivo de “Il problema dell’ateismo”, comparso nel 1964, che raccoglie e rielabora anche scritti degli anni precedenti, Del Noce ricorda che in Marx l’unica via per colpire la religione è quella di sopprimerne effettivamente le radici: “cioè non la via metafisica, e neppure quella storica o scientifica, ma la via politica: il che, tra l’altro, è a piena conferma della mia tesi sulla priorità del momento politico nell’ateismo” (p. 352). Da qui la tesi di Del Noce: “La rivoluzione che porta al comunismo non può essere realizzata che attraverso un’etica che ha il suo fondamento in una concezione dell’uomo assolutamente ateizzata e di cui d’altra parte l’adozione si impone come necessaria, perché l’alternativa è pensata come la barbarie radicale. Solo in questo senso mi pare si possa dire che la realizzazione del comunismo debba coincidere con la scomparsa del problema di Dio” (p. 352).

4. La fragilità delle risposte filosofiche all’ateismo pratico.
La tesi di Del Noce si articola in due momenti distinti. Il primo non è originale: il comunismo si può affermare soltanto attraverso la pratica di un’etica ateistica che cancelli il ricordo del problema di Dio. Il secondo aspetto è, invero, originale: l’etica materialistica deve imporsi perché, nel pensiero dei comunisti e di coloro che ne sono divenuti «compagni di strada», la sua alternativa non può non essere pensata come la barbarie radicale. L’acutezza del Maestro ha qui colto la radice dell’egemonia culturale del marxismo nell’Italia del secondo dopoguerra. Nel pensiero di Franco Rodano e di Giuseppe Dossetti tutte le letture filosofiche della modernità che hanno contrastato il marxismo sono sfociate nel fornire un sostegno o un contributo ai fascismi: ciò vale non soltanto per la linea idealistica più coerente, rappresentata dall’attualismo di Giovanni Gentile, ma anche per il neotomismo e per le varie forme dell’esistenzialismo spiritualista. Ma i fascismi, ricondotti dai Rodano e dai Dossetti, alla scuola di Antonio Gramsci di Palmiro Togliatti, a categoria unitaria ricomprendente tutte le filosofie estranee alla linea immanentistica inverata dal marxismo, hanno rivelato incontestabilmente la loro natura barbarica. Dunque, l’unica etica che contiene in sé gli anticorpi idonei a contrastare i fascismi è quella comunista. Questa la ragione per cui, nell’ideologia matura dei cattolici che hanno inteso il materialismo storico come ineluttabile positivo esito storico della modernità, l’adesione alla rivoluzione, nella forma ugualitaria proposta dal comunismo, si appalesa non come un contingente compromesso storico, bensì come necessaria sul piano sia etico che politico.
Del Noce esamina a fondo questa tesi, ammettendone la forza. Egli contraddice anzitutto la tesi comunista, azionista e cattolico-progressista sulla natura dei fascismi. Questa tesi è gravemente inaccurata sul piano filologico, nonché ideologicamente maliziosa. Del Noce non avrebbe mancato di approfondire questo problema, differenziando con precisione i vari fascismi tra loro e mettendone in luce le diverse fonti e le radicali divergenze, in specie rilevabili tra nazionalsocialismo e fascismo italiano. Inoltre, Del Noce non avrebbe mancato di chiarire che, se un elemento comune ai vari fascismi sussiste, questo consiste nell’accettazione modernista del relativismo etico applicato in principal modo alla teoria e alla prassi politica.
Del Noce, poi, afferma la necessaria soccombenza sia del liberalismo crociano sia del neotomismo espresso da Jacques Maritain rispetto al marxismo, per la loro debolezza intrinseca. Per Del Noce vanamente sia Croce, in campo laicistico, sia Maritain, in quello cattolico, hanno tentato l’oltrepassamento del marxismo (p. 356). Quanto a Croce, Del Noce pone l’accento sul fatto che per il filosofo liberale la riaffermazione del liberalismo dopo il marxismo dovrebbe presentarsi dissociata dal liberismo. Ma se accadesse questo il liberalismo finirebbe per identificarsi col conservatorismo, e, così amputato, verrebbe messo in crisi l’immanentismo che ne è alla base. Inoltre, la critica decisiva del marxismo alla società liberale non consentirebbe il ritorno alle filosofie inveratesi nel marxismo: dunque, l’oltrepassamento del marxismo dovrebbe “coincidere con la riscoperta di una linea di pensiero in cui Vico figura come iniziatore” (p. 358). Se si pensa all’importanza dell’incontro di Croce con Vico e all’interpretazione immanentistica che il filosofo napoletano ne ha dato nell’opera giovanile del 1911, si comprende come Del Noce suggerisca una riforma radicale del liberalismo crociano, al fine di liberarlo della soccombenza rispetto al marxismo: invece di leggere Vico alla luce degli idealisti tedeschi, occorrerebbe leggere l’anelito per i valori tradizionali di Croce (il “non possiamo non dirci cristiani”) secondo la correzione ricavabile dal pensiero di Giambattista Vico.
Quanto a Maritain, Del Noce coglie due fondamentali aporie nel suo pensiero. La prima consiste nel rovesciamento dell’antimoderno (Primauté du spirituel – 1927) nell’ultramoderno, che costituisce la parabola del suo sviluppo filosofico. La seconda consiste nella valorizzazione perfettistica del processo della modernità, correlativa al giudizio di decadenza, rifiutato dal secondo Maritain, inerente allo schema antimoderno. La democrazia diventò così, in Humanisme intégral, non più una possibile forma di governo, ma la forma migliore di Stato, come esito perfettistico di un processo positivo di sviluppo. L’aspetto perfettistico, che Del Noce vede presente nel Maritain ultramoderno come esattamente correlativo al giudizio di regresso dalla cristianità storica alla modernità, spiega la debolezza concettuale di Maritain e il necessario superamento del suo umanesimo democratico per opera della democrazia ugualitaria rappresentata dal marxismo.
V’è, poi, secondo Del Noce, una ulteriore ragione di debolezza del maritainismo, più grave della prima. Maritain inscrive il suo pensiero all’interno del neotomismo, che si costruisce avendo come avversario, entro le filosofie cristiane, l’ontologismo (p. 319). Nel quadro neotomista “la metafisica cristiana dell’età barocca, nella forma cartesiana, deve apparirgli come una pura decadenza e non come una risposta, sia pure inadeguata, a problemi nuovi (appunto, al sorgere all’ateismo) che S. Tommaso aveva ignorato, e ciò semplicemente perché ogni filosofo non può pensare che in una determinata situazione storica e contro determinati avversari” (p. 319).
Possono così cogliersi i due filoni cruciali del pensiero di Del Noce. Il primo, sul piano filosofico, consiste nell’insinuare elementi di discontinuità e di criticità nell’interpretazione, tipica del neo-tomismo, della filosofia moderna come un processo continuo di radicalizzazione dell’istanza soggettivistica in gnoseologia, di quella razionalistica in metafisica e di quella relativistica in etica. Del Noce non nega certamente che questi elementi siano dominanti e che si rivelino appieno nel trionfo dell’idealismo tedesco e nel suo rovesciamento marxista. Cerca, però, di rintracciare negli Autori moderni, a partire da Cartesio, quegli elementi che, diversamente orientati, avrebbero portato a esiti diversi e a una adeguata tematizzazione della trascendenza, nella ricerca della verità sul piano metafisico etico e giuridico.
Il secondo filone ha valenza prettamente politica. Del Noce cerca una soluzione in virtù della quale gli eredi del liberalismo, liberati dalle pretese totalizzanti dell’ideologia liberista e della filosofia immanentistica; gli eredi della dottrina sociale della Chiesa, liberati dal mito medievista dell’antimoderno e dal mito perfettista dell’ultramoderno; gli eredi del socialismo democratico, liberati dall’ideologia materialista e dal pensiero dialettico, possano insieme dar vita a una società alla cui base stiano valori oggettivi comuni e non negoziabili ad libitum dalla soggettività di ciascuno.

5. La linea filosofica teistica: in particolare, la rivalutazione di Cartesio.
Prima di passare a qualche considerazione sul significato della prospettiva politica, occorre soffermarsi sulla tesi filosofica. Del Noce, come si è detto, rileva filologicamente le tracce storiche di una linea filosofica che egli chiama teistica, rispetto a quella immanentistica e ateistica. I suoi Autori – si comprende con chiarezza dagli accenni contenuti nei suoi scritti – sono principalmente Giambattista Vico e Antonio Rosmini. Basti considerare che, preannunciando Egli nell’introduzione al volume “Riforma cattolica e filosofia moderna” una trilogia dimostrativa della sua tesi, dichiara di voler dedicare il terso libro a Giambattista Vico. Basti rilevare, soprattutto, il suo continuo riferimento alla filosofia che egli – forse inopportunamente – chiama ontologistica. Non si tratta, a mio sommesso avviso, di un riferimento all’ontologismo filosofico in senso proprio, ma del riferimento all’esigenza filosofica di un duplice recupero sul piano concettuale. Anzitutto di un recupero, come base indispensabile del filosofare, delle evidenze del senso comune. La conoscenza non comincia dal nulla; ma dall’esperienza immediata di verità che sono comuni a ogni uomo, in ogni tempo e in ogni luogo. Senza l’esperienza immediata del mondo, dell’io, della distinzione tra io e mondo; senza l’esperienza della libertà e della responsabilità; senza l’evidenza del trascendimento dell’io rispetto al mondo, il cominciamento del filosofare non sarebbe possibile
In secondo luogo, di un recupero dell’idea che, senza la partecipazione dello spirito divino alla mente umana, anzi all’uomo intero, composto di anima e di corpo, l’uomo non sarebbe in grado di conoscere veramente le verità metafisiche e naturali. Senza la vis veri, partecipata da Dio all’uomo, secondo la terminologia di Vico, l’uomo non conoscerebbe alcunché in modo intelligibile, ma sarebbe assimilabile agli altri esseri animati.
A questi indispensabili recuperi concettuali, Del Noce aggiunge due altri temi. Il primo è l’esigenza di un rapporto della filosofia con la storia. Una filosofia «anistorica», come egli la definisce nel saggio “Il problema Pascal e l’ateismo contemporaneo”, raccolta nel Il problema dell’ateismo, (p. 208), è scarsamente proficua. Il secondo è il tema antiperfettistico, ove il perfettismo è definito, alla sequela di Antonio Rosmini, come l’atteggiamento utopistico che intende realizzare nella città terrena la città eterna. Questi due temi, allo stesso modo dei recuperi concettuali delle evidenze del senso comune e del conformarsi dell’uomo conoscente alle verità oggetto di conoscenza in virtù di una reminiscenza nella mente umana di verità impresse da Dio fin dall’origine, sono sviluppati da Del Noce in una sorta di contro-storia della filosofia moderna, ove egli scorge in filigrana una linea di pensiero non inficiata dal vizio immanentistico e, dunque, non superata dall’idealismo hegeliano e dal suo rovesciamento marxista. In questo quadro cruciale acquista rilievo la rivalutazione della Riforma cattolica e, sul piano filosofico, la lettura di Cartesio in una chiave diversa rispetto a quella di capostipite del soggettivismo moderno e del fautore del dubbio radicale. La base del convincimento di Del Noce si ricava dall’individuazione dell’avversario teoretico della filosofia di Cartesio nel pensiero libertino, come esito ultimo del processo naturalistico rinascimentale (p. 219). Del Noce vede la scaturigine del filosofare di Cartesio nell’esperienza della libertà, ove il dubbio metodico “si manifesta come operazione mirante a rovesciare il dubbio scettico” (p. 219). Prosegue Del Noce: “Nell’affermazione della mia trascendenza al mondo, che la mia capacità di metterlo in dubbio rende manifesta, è la denuncia del dogmatismo naturalistico, sottinteso al dubbio scettico” (p. 219). Il rovesciamento della posizione libertina si sarebbe accompagnata in Cartesio a una concessione esiziale. Al carattere politico del pensiero libertino Cartesio oppose “una separazione netta di filosofia e di religione dalla politica” (p. 220): da qui il giudizio di «filosofia monastica» che Giambattista Vico dette della filosofia di Cartesio. Il punto di partenza «Cartesio» è, dunque, per Del Noce, non necessariamente di tipo soggettivistico e razionalistico: la struttura significativa del suo pensiero sarebbe, nell’accettazione dell’intuizione fondamentale della Riforma Cattolica, di combattere il libertinismo, erede dell’eresia rinascimentale, nonché il cupo pessimismo negatore della libertà, sviluppatosi in ambiente protestante. Certo, Del Noce non nega l’ambiguità essenziale cartesiana, ma sottolinea che “Bontà divina, libertà umana, correlatività tra l’affermazione di Dio e quella dei valori naturali, sono pure i momenti essenziali della filosofia di Cartesio” (p. 232).
La preservazione della libertà umana, di contro alla sua negazione o al suo oblio in ambiente protestante, sarebbe stato il legato prezioso con cui, attraverso la mediazione di Nicole Malebranche, Giambattista Vico avrebbe elaborato la Scienza Nuova, ove libertà umana e Provvidenza divina si incontrano meravigliosamente e la Provvidenza estrae continuamente il bene dalla storia degli uomini, intrisa di azioni buone e di azioni malvagie.

6. La linea filosofica teistica: la filosofia di Vico.
La linea filosofica teistica focalizzata da Del Noce si muove lungo il duplice asse costituito, da un lato, dalla preservazione della libertà umana e dal riconoscimento della bontà di Dio e della sua creazione, che gli uomini hanno sfigurato sin dall’origine e continuano a sfigurare con le loro colpe attuali, ma che rimane fondamentalmente buona, e, da un altro lato, dalla reminiscenza del vero, del bene, del giusto e del bello nella mente dell’uomo, siccome creata buona da Dio. L’opera di Vico si staglia al centro di questo processo di filosofia teistica. In Vico, come sopra detto, la Provvidenza divina non è di ostacolo alla libertà umana; l’uomo è capace di conoscere il vero e di praticare il bene e il giusto e di contemplare il bello per una reminiscenza del vero buono giusto eterno che la creatura ha inscritta nella sua natura, siccome creata a immagine e somiglianza di Dio. Vico, inoltre, non è né decadentista né perfettista; libero quant’altro mai sia dai miti dell’età dell’oro sia dai veleni utopistici, concepisce la storia realisticamente e non ideologicamente, come luogo dello scontro tra coloro che, pur nella fragilità della natura decaduta, mantengono in sé stessi l’impronta divina della vis veri, e coloro che, per la barbarie dei sensi o per la barbarie della riflessione scettica, lasciano che si offuschi in se stessi, sin quasi a cancellarla, l’immagine e la somiglianza di Dio. Vico, però – e per questo aspetto egli è particolarmente caro a Del Noce – svolge la riflessione filosofica partendo dall’uomo calato nella storia; egli, pertanto, che non è perfettista né decadentista, descrive i progressi e i regressi delle civiltà; non minimizza le differenze qualitative delle une rispetto alle altre e trae dalla storia insegnamenti perenni in ordine a ciò che a tutti gli uomini è comune, nonostante le divisioni e i cambiamenti, mettendo in luce la grande verità dell’unità del genere umano. La storia dei popoli è per Vico, accanto e più ancora che la natura, il gran libro in cui si possono riconoscere le verità perenni che costituiscono la traccia nella storia del vero del buono del giusto eterno.
Del Noce lamenta che la linea filosofica teistica, splendidamente rappresentata da Vico, sia stata messa in disparte, ignorata completamente da Hegel e, perciò, non trapassata nella filosofia dell’ ‘800 e del ‘900, tanto che la riproposizione del grandioso affresco del filosofo napoletano venne inscritta da Croce e da Gentile all’interno del quadro idealistico. Questa linea – rileva Del Noce - ignorata dal marxismo, è irriducibile alle filosofie che il marxismo ha preteso di inverare. Questa linea trova un punto alto di espressione in Antonio Rosmini, che unisce il saldo realismo cristiano, fondato sull’esperienza immediata della natura umana decaduta – il peccato originale come rivelazione confermativa di una evidenza che la ragione umana riconosce nella storia – con la ferma convinzione che nell’uomo resta impressa, nonostante il peccato, la traccia indelebile della sua origine da Dio: traccia che rende possibile la conoscenza che Dio è. Del Noce chiama questa linea di pensiero ontologista, anche se riconosce l’improprietà del termine, perché non tanto questo pensiero sviluppa l’argomento ontologico della deduzione dell’esistenza di Dio dall’idea di Dio nell’uomo, quanto, piuttosto, perché insiste sulla reminiscenza di Dio nella coscienza umana, che costituisce l’inizio della conoscenza di Dio e delle realtà intelligibili. Realtà, invece, assolutamente inconoscibili nella linea di pensiero immanentistica, vuoi idealistica vuoi empirista.
Del Noce, che è attratto particolarmente dal rapporto tra filosofia e storia, tra riflessione concettuale e ricadute politico-sociali, apprezza in Rosmini soprattutto quell’attitudine realista, insieme intrisa di attenzione per la storia, che egli chiama «antiperfettismo». Nel suo contrario , il «perfettismo», Rosmini vede “quel sistema che crede possibile il perfetto nelle cose umane, e che sacrifica il bene presente alla immaginata futura perfezione”, a cui è inerente sia la soppressione della libertà, perché altrimenti, secondo l’acuto rilievo di Rosmini “l’ideale raggiunto sarebbe uno stato di perfezione instabile esposto a tutti gli attentati degli individui alieni, per una ragione o per un’altra, da quell’ideale di perfezione”; sia la svalutazione della storia passata e la deificazione del futuro; sia il rifiuto dell’idea del peccato originale; sia la riduzione dell’individuo alle sue relazioni sociali.

7. Il significato storico-politico dell’opera di Del Noce.
Un ultimo rilievo va svolto, come anticipato, con riguardo al significato politico dell’opera di Augusto Del Noce nella particolare temperie storica del secondo dopoguerra italiano, nel periodo che va dal 1945 al 1989, in particolare all’inizio degli anni ’80, quando la prospettiva storico-politica fino ad allora egemone venne rovesciata grazie all’insegnamento e all’azione del Pontefice Giovanni Paolo II, il Grande. L’importanza di Del Noce, invero, a mio sommesso avviso, va ravvisata, più che sul piano della speculazione filosofica, sulla stigmatizzazione critica delle ricadute culturali, politiche e sociali delle filosofie immanentistiche moderne, di cui il marxismo, anche e soprattutto nella versione gramsciana, voleva essere l’ «inveramento». Del Noce mise l’accento del «divieto di fare domande», in cui sfociarono concordanti comunismo, azionismo e progressismo cristiano. Poiché la storia avrebbe rivelato il fallimento dell’antimoderno nel suo farsi sostegno della barbarie fascista, ogni domanda autenticamente filosofica avrebbe dovuto essere censurata. Nell’ottica del sospetto, che caratterizza il pensiero moderno, soprattutto nella linea Marx, Nietsche, Freud, chi avesse riproposto il tema della trascendenza, della conoscenza delle realtà intelligibili e dell’azione eticamente orientata alla luce di princìpi permanenti avrebbe surrettiziamente perseguito lo scopo, consapevolmente o oggettivamente, di risvegliare i fascismi. Di qui la censura nei confronti della filosofia e il «divieto di fare domande» sugli esiti atroci delle filosofie immanentistiche.
Augusto Del Noce riaprì un orizzonte che sembrava definitivamente chiuso. Per Del Noce le filosofie dell’immanenza, come è vero e come è giusto ancora oggi ripetere, avevano dato origine, oltre che al liberalismo e al comunismo, anche ai fascismi. La linea filosofica teistica non era stata coinvolta dai superamenti e dai rovesciamenti dell’immanentismo. A questa linea filosofica Del Noce suggeriva di ritornare, non tanto per elaborare una nuova scolastica pedissequamente destinata a ripetere gli antichi, quanto per riproporre le domande filosofiche sull’origine e sul destino dell’uomo, sull’esistenza di Dio, sull’esistenza di valori permanenti nella storia, sull’etica fondata sul bene e non sull’utile e sul diritto naturale.
In un’epoca oscura Egli fu segno di contraddizione; fiaccola nella notte; promessa dell’alba. Se i suoi giudizi filosofici non sempre sono condivisibili, la sua testimonianza a favore della verità sempre è stata esemplare. Per questo mi è particolarmente grato ricordarne la memoria nel centenario della nascita, raccomandando la sua anima a Dio e raccomandando a Lui di vegliare per il rinnovamento della filosofia cattolica e di pregare per l’instaurazione di una società cristiana a misura di uomo, secondo il piano di Dio.

Mauro Ronco

Massimo Introvigne: Del Noce e Leone XIII

Due centenari s’incontrano

Il 2010 segna il primo centenario della nascita di Augusto Del Noce (1910-1989) e il secondo centenario della nascita di Leone XIII (1810-1903). Li ricordo insieme sia per la coincidenza cronologica, già di per sé molto significativa, sia perché la riflessione di Del Noce su Leone XIII è cruciale per intendere alcuni aspetti del suo pensiero. In particolare, la valutazione del filosofo nato a Pistoia sulle encicliche di papa Gioacchino Pecci definisce sia gli elementi di contiguità sia quelli di differenza di Del Noce rispetto alla scuola cattolica contro-rivoluzionaria, dal cui punto di vista esplicitamente si pone Alleanza Cattolica e mi pongo io in questo contributo, e che nasce come critica alla Rivoluzione francese intendendola però come parte di un processo di progressiva scristianizzazione dell’Europa che né è iniziato né finisce con il 1789.

Se la consapevolezza nel mondo cattolico per il centenario di Del Noce è certamente insufficiente, più grave ancora è lo scarso interesse che circonda la ricorrenza relativa a Leone XIII, nonostante l’esplicito invito di Benedetto XVI a interessarsene con l’annuncio di un viaggio a Carpineto Romano, città natale del suo predecessore, previsto per il 5 settembre 2010. Le ragioni di questo disinteresse sembrano essere sostanzialmente tre. La prima è la riduzione del ricchissimo magistero di Leone XIII a un unico documento, l’enciclica Rerum novarum del 1891, che però, letta al di fuori del contesto complessivo dell’insegnamento di papa Pecci, non può che essere da un lato fraintesa dall’altro celebrata sempre più stancamente. La seconda è lo scarso amore della scuola cattolico-democratica, tuttora influente in tanti ambiti culturali, per Leone XIII, nonostante il riferimento obbligatorio alla Rerum novarum. Leone XIII è infatti anche il papa che ha sottolineato l’eccellenza della civiltà cristiana medievale, la malizia del «diritto nuovo» moderno, l’intransigente opposizione alla massoneria, il riferimento obbligatorio per i cattolici nella filosofia a san Tommaso d’Aquino (1225-1274). La terza è che gli stessi oppositori più conseguenti dei cattolici democratici, gli esponenti della scuola contro-rivoluzionaria, se si sono ampiamente serviti del magistero di Leone XIII di rado hanno veramente amato papa Pecci. Questo atteggiamento appare nel modo più tipico nel maggiore esponente della scuola contro-rivoluzionaria del XX secolo, Plinio Corrêa de Oliveira (1918-1995). Le sue opere sono ricche di citazioni da Leone XIII. Eppure in una conferenza inedita – forse rimasta inedita non a caso, considerata la venerazione che l’autore aveva per il pontificato romano in genere – Corrêa de Oliveira stigmatizza «la vanagloria rispetto alla sua famiglia» (Pecci) di Leone XIII, la paragona a quella di papa Innocenzo III (1160-1216) la quale, secondo una rivelazione privata, avrebbe condannato questo pontefice medievale a «rimanere in purgatorio fino alla fine del mondo», e definisce «un incubo» la condizione dei contro-rivoluzionari sotto il pontificato di Leone XIII che, afferma, «può essere simbolizzato dal ralliement» (Corrêa de Oliveira s.d.).

L’allusione, qui, è al ralliement alla Repubblica voluto nel 1892 da Leone XIII, che con l’enciclica Au milieu des sollicitudes incita i cattolici francesi, nella loro grande maggioranza monarchici, a collaborare lealmente con le istituzioni repubblicane purché siano salvaguardati alcuni princìpi fondamentali in tema, in particolare, di libertà di educazione. La rottura del 1892 è drammatica e divide in Francia anche i cattolici più fedeli al Papa — per esempio, all’interno stesso della scuola contro-rivoluzionaria, René de la Tour du Pin (1834-1924) rifiuta il ralliement mentre Albert de Mun (1841-1914) lo accetta —, spacca le famiglie e costituisce un passaggio traumatico senza il quale non si spiegano tutte le traversie seguenti del mondo cattolico conservatore e tradizionalista francese, fino alla vicenda di monsignor Marcel Lefebvre (1905-1991). Il ralliement ha certo conseguenze negative sul piano storico e politico. Contrariamente alle attese di Leone XIII, non modera la Repubblica, che anzi accelera la deriva laicista e anticlericale fino agli eccessi fanatici del presidente del Consiglio Émile Combes (1835-1921), mentre all’interno della Chiesa alcuni cattolici rallié passano dall’accettazione del sistema repubblicano a quella dei princìpi ispiratori della Rivoluzione francese, determinando così la condanna nel 1910 da parte di san Pio X (1835-1914) del movimento Sillon, fondato da Marc Sangnier (1873-1950).

Non si può tuttavia non considerare che il ralliement è anche figlio di una questione dinastica divenuta intrattabile. Per gran parte dell’Ottocento i contro-rivoluzionari e la Santa Sede avevano sostenuto la branca primogenita dei Borboni di Francia, rappresentata da un contro-rivoluzionario convinto e coerente come Enrico V, conte di Chambord (1820-1883), mentre la branca cadetta degli Orléans era stata il simbolo stesso di una monarchia rivoluzionaria, fredda verso la Chiesa e filo-massonica. La branca primogenita si estingue nel 1883 con la morte di Enrico V senza figli. La grande maggioranza dei monarchici francesi riconosce come nuovi legittimi pretendenti al trono di Francia, senza entusiasmo, gli Orléans. Esistono, certo, i cosiddetti «bianchi di Spagna», monarchici che rifiutano la successione orléanista e ritengono che i legittimi eredi di Enrico V siano i Borbone di Spagna della branca detta «carlista». Benché riescano a produrre opere raffinate che giustificano le loro pretese dal punto di vista del diritto dinastico francese, i «bianchi di Spagna» restano però una piccola minoranza, una «cappella insignificante» (Augé 1995, 156) secondo le parole stesse di uno dei loro maggiori esponenti nel secolo XX, lo storico Guy Augé (1938-1994). La loro corrente diventerà nuovamente significativa, per una serie di circostanze, solo dopo la Seconda guerra mondiale. Così, tra orléanisti in odore di massoneria e «bianchi di Spagna» politicamente irrilevanti, Leone XIII – su cui peraltro è stata pure emessa l’ipotesi secondo cui avrebbe pensato al ralliement già durante la vita del conte di Chambord –, nove anni dopo la morte di Enrico V, conclude che nessuna delle due alternative è praticabile, ricorda la dottrina tradizionale secondo cui la dottrina sociale della Chiesa non è legata di per sé ad alcuna forma di governo e sceglie il ralliement alla Repubblica.

Rimane tuttavia vero che chi considera il ralliement una catastrofe ammette di solito il carattere dottrinalmente impeccabile dell’enciclica Au milieu des sollicitudes – in effetti, per seguire la dottrina sociale della Chiesa non è obbligatorio essere monarchici, né l’enciclica, a differenza dei cattolici democratici del Sillon, insinua che sia obbligatorio non esserlo – e apprezza il magistero di Leone XIII. Al contrario, chi vede il ralliement come un atto dovuto, semmai troppo tardivo, si trova spesso in prima linea fra coloro che eliminano dall’orizzonte culturale dei cattolici contemporanei il magistero di papa Pecci, di solito attraverso la strategia che consiste nel ridurlo alla sola Rerum novarum. In questo panorama, dove si situa Del Noce?


L’apprezzamento di Del Noce per Leone XIII

Del Noce incontra la centralità di Leone XIII attraverso un lunghissimo sodalizio intellettuale con Étienne Gilson (1884-1978). Per Del Noce Gilson non è solo uno storico della filosofia, ma un pensatore originale che, ove fosse stato seguito, avrebbe potuto arginare i guai del progressismo cattolico o, per dirla con il filosofo di Pistoia, del «neomodernismo» (Del Noce 2005, 31). Su Gilson, scrive Del Noce, «è opinione diffusa, qui in Italia, che sia uno storico della filosofia, piuttosto che un filosofo; in realtà è un “filosofo attraverso la storia”» (ibid., 33). Qui in verità Del Noce parla anche di se stesso. Anch’egli è considerato da molti un mero storico della filosofia, mentre rivendica di essere un filosofo, e precisamente un «filosofo attraverso la storia». L’importanza di Gilson, per Del Noce, sta nel fatto che «scoprì la verità e la presente attualità del tomismo attraverso l’accertamento di quel che il Dottor Angelico aveva realmente pensato» (ibid.). La questione è di rilievo, e non attiene solo alla storia, precisamente perché ogni forma di resistenza al progressismo per Del Noce deve necessariamente arruolare il tomismo: e deve trattarsi del tomismo di san Tommaso, non di quello manualistico e sterile di tanti neotomisti.

Da questo punto di vista Gilson articola attraverso gli strumenti della storiografia del XX secolo quanto era già stato pensato da qualcuno nel secolo XIX. E quel qualcuno è Leone XIII. Gilson, spiega Del Noce, scopre l’enciclica Aeterni Patris di Leone XIII, che è del 1879, nel 1930, «dato che, per strano che possa parere, non aveva mai prima d’allora letto questa enciclica. Strano, del resto, fino a un certo punto, perché Gilson era di formazione universitaria, della Sorbona, e a quel tempo le encicliche pontificie non solevano esser lette dai filosofi, e spesso neanche dai filosofi cattolici» (ibid., 77: né molto è cambiato nelle università dei giorni nostri). Gilson legge la Aeterni Patris mentre è impegnato nella disputa sulla possibile esistenza di una filosofia cristiana e nella risposta ai laicisti della Sorbona, i quali sostengono che il pensiero cristiano medioevale di cui il docente francese è studioso, per interessante che sia, non appartiene alla filosofia perché è essenzialmente di natura teologica. Grazie al provvidenziale incontro con Leone XIII, Gilson è in grado di rispondere che non si tratta di sottrarre dal pensiero medioevale tutto quanto è strettamente teologico e chiamare il residuo «filosofia cristiana». Al contrario, è cristiana quella filosofia che riconosce il «primato della fede» (Gilson 1960, 248), anzi «il primato della parola di Dio» (ibid., 246), e questo non all’esterno ma all’interno stesso di un pensiero che si presenta come «un progresso a partire da una verità che non è suscettibile di progresso» (ibid., 251). Per Del Noce questa è l’unica possibile filosofia che non rompe l’unità fra fede e ragione, ancorché le distingua e sfugga quindi a ogni accusa di fideismo. La separazione fra filosofia e teologia comporta invece la separazione fra fede e ragione, e quel cedimento al laicismo che nella Chiesa prende la forma del (neo)modernismo.

Del Noce ritiene che il fondamentale risultato raggiunto da Gilson sia possibile solo attraverso una critica di certe angustie e asprezze del neotomismo, il che presuppone un ritorno alla lettera dell’enciclica Aeterni Patris del 1879. Qui infatti si vincola la cultura cattolica a privilegiare una filosofia ad mentem Sancti Thomae Aquinatis. Per Del Noce, «quel ad mentem serve a chiarire l’equivoco delle dispute sulla filosofia cristiana» (Del Noce 2005, 78) e testimonia «la grandezza filosofica di Leone XIII» (ibid.). Leone XIII riporta con san Tommaso nella Chiesa non un insieme di formule ma un metodo: nei termini di Del Noce, in implicita polemica con qualche neotomista, «non tanto una dottrina quanto una maniera di filosofare: e in ogni caso l’aspetto della dottrina si trova in una certa misura posposto a quello della maniera di filosofare» (ibid.).

Gilson nel volume del 1960 Le Philosophe et la théologie, su cui Del Noce spesso ritorna, dà atto a Leone XIII di avere risolto il problema della «filosofia cristiana» cinquant’anni prima che la Sorbona iniziasse a discuterne, e di avere fatto molto di più: papa Pecci ha applicato questo metodo a tutti i principali campi del pensare e dell’agire umano, teorici e pratici. Per comprendere come questo sia avvenuto occorre leggere le encicliche principali di Leone XIII non in ordine cronologico ma nell’ordine che il pontefice stesso ha suggerito nell’enciclica Pervenuti all’anno vigesimo quinto del 19 marzo 1902, pubblicata per il venticinquesimo anniversario della sua elezione a Pontefice. Nell’enciclica il papa ricorda nell’ordine «le [sue] Encicliche sulla filosofia cristiana [Aeterni Patris, 1879], sulla libertà umana [Libertas, 1888], sul matrimonio cristiano [Arcanum Divinae Sapientiae, 1880], sulla setta dei Massoni [Humanum genus, 1884], sui poteri pubblici [Diuturnum, 1881], sulla costituzione cristiana degli Stati [Immortale Dei, 1885], sul socialismo [Quod apostolici muneris, 1878], sulla questione operaia [Rerum novarum, 1891], sui principali doveri dei cittadini cristiani [Sapientiae Christianae, 1890]» (Leone XIII 1902). In un discorso di trent’anni fa Del Noce si chiedeva «perché nessuno in Italia abbia pensato all’edizione delle nove encicliche secondo quell’ordine logico che il Papa aveva fissato» (Del Noce 2005, 77). Nessuno ci ha pensato ancora oggi, e potrebbe essere un modo di dare retta a Benedetto XVI che ha invitato a ricordare Leone XIII in occasione del bicentenario.

Comunque sia, in funzione di questo corpus secondo Gilson – che Del Noce cita e approva più di una volta (ibid., 77; Del Noce 1977, 25) – «Leone XIII prende posto nella storia della Chiesa come il più grande filosofo cristiano del secolo XIX e uno dei più grandi di tutti i tempi» (Gilson 1960, 191). Tutto il Corpus Leonianum è retto dalla Aeterni Patris, perché prima occorre definire il metodo e poi applicarlo: «i programmi di riforma sociale suppongono effettuata questa prima riforma intellettuale, condizione di tutte le altre» (ibid., p. 192). «I vecchi politici cattolici – notava Del Noce nel 1977 – leggevano la Rerum novarum come se fosse isolabile dall’insieme del Corpus Leonianum; coerentemente i nuovi, portando alle conseguenze ultime il difetto di questa linea, hanno del tutto trascurato di leggerla» (Del Noce 1977, 25-26). L’oblio della Rerum novarum è avvenuto «diciamo pure con ragione, perché scissa dal suo fondamento filosofico, dal contesto delle nove encicliche essenziali, e in particolare dall’Aeterni Patris, è destinata a perdere significato» (Del Noce 2005, 77).

Non già che la Rerum novarum, per Del Noce, non sia importante anche nei suoi aspetti strettamente sociali. Al contrario è una «enciclica profetica» (Del Noce 2005, 227) la cui «critica radicale della mentalità utopistica» (ibid., 228) del marxismo e nello stesso tempo di un liberalismo assoluto, secondo cui il mercato risolverà da solo tutti i problemi, appare non – come talora si legge – in ritardo rispetto alla teoria economica dell’epoca, ma al contrario in anticipo e sorprendentemente attuale. Ma, appunto, per cogliere tutte le implicazioni della Rerum novarum è necessario prendere sul serio l’invito della Pervenuti all’anno vigesimo quinto di leggerla dopo altre sette encicliche di Leone XIII, comprese quelle sulla filosofia, sulla massoneria e sul socialismo. Infatti tutta la parte della Rerum novarum sui diritti rispettivi dei datori di lavoro e dei lavoratori, afferma Del Noce, «è legata alla fondamentale tesi dell’antecedenza dell’uomo allo Stato, e questa alla legge naturale e alla metafisica che essa implica» (ibid., 231). «Ora, la rinascita cattolica – incalza ancora il filosofo di Pistoia – deve essere, secondo il pensiero di Leone XIII, inscindibilmente religiosa, filosofica e politica, “politica”, perché richiesta come necessaria per la salvezza anche temporale della società umana, ma questa politica deve appoggiarsi su una filosofia che sia a sua volta preambolo della fede» (Del Noce 1977, 26).

Vi è qui un insegnamento fondamentale di Del Noce, che si ritrova oggi in Benedetto XVI e in particolare nell’enciclica Caritas in veritate del 2009. La dottrina sociale della Chiesa è parte integrante dell’insegnamento della Chiesa Cattolica: ma lo è proprio perché non è solo socio-economica ma anche e anzitutto socio-politica, e perché altro non è che la morale sociale cristiana, la quale presuppone i fondamenti della morale nella verità naturale e rivelata. Il filo che collega Leone XIII, Gilson e Del Noce aiuta a cogliere questa autentica natura della dottrina sociale. Benedetto XVI la ribadisce ancora oggi perché, nonostante la sua reiterata illustrazione da parte del Magistero, non tutti l’hanno compresa. Del Noce ha messo in guardia per tempo sulle conseguenze catastrofiche di questa incomprensione.


Una riserva di Del Noce su Leone XIII

Del Noce, come si vede, è prodigo di elogi su Leone XIII, « il più grande filosofo cristiano del secolo XIX e uno dei più grandi di tutti i tempi» secondo la citata espressione di Gilson che riprende e approva. E tuttavia vi è un aspetto del pensiero di Leone XIII che Del Noce non condivide. Dal mio punto di vista questa critica è particolarmente interessante e, se mi è consentito un accenno autobiografico, mi riporta alla mente numerose conversazioni con il filosofo italiano a Roma e a Savigliano, perché è qui che si situa precisamente la divergenza fra Del Noce e la scuola contro-rivoluzionaria.

Uno dei tanti pensatori oggi ampiamente dimenticati di cui Del Noce si è interessato in modo approfondito è il filosofo idealista francese Léon Brunschvicg (1869-1944). Questo autore, che non aveva simpatia né per la rinascita del tomismo né per la scuola contro-rivoluzionaria, aveva sostenuto che il Corpus Leonianum, a partire da quel suo punto di partenza logico che è la Aeterni Patris, presuppone un giudizio sulla storia che è quello contro-rivoluzionario, mutuato da papa Pecci soprattutto da Joseph de Maistre (1753-1821) e Louis de Bonald (1754-1840) (Brunschvicg 1928, II, 502-503). Secondo Del Noce, Brunschvicg espone la tesi «con una certa tendenziosità, ma con un sostanziale fondo di verità» (Del Noce 1964, 401). È interessante notare che Del Noce discute la questione in un contesto di critica a Jacques Maritain (1882-1973) e al contributo di quest’ultimo al progressismo cattolico. Certo, a proposito di Maritain Del Noce ha invitato a «riconoscere, contro critiche facili, il suo elevatissimo valore, come sistematore filosofico rigoroso di una delle maggiori esperienze spirituali a cavallo fra l’800 e il ‘900, quella di Léon Bloy [1846-1917]» (ibid.). Il filosofo di Pistoia, però, si separa da Maritain precisamente sul punto dell’interpretazione della storia.

Nelle varie fasi che hanno contraddistinto l’itinerario intellettuale di Maritain secondo Del Noce è cambiato – più di una volta – il giudizio sul processo storico del pensiero moderno, ma non è mai cambiata la descrizione di questo processo, che rimane quella contro-rivoluzionaria. Secondo questa descrizione la modernità è un processo di progressiva scristianizzazione che va in modo lineare dal Rinascimento e da Martin Lutero (1483-1546) fino all’illuminismo, alla Rivoluzione francese e al marxismo. Se questo processo sia da combattere – secondo la posizione contro-rivoluzionaria – o se invece occorra cercare qualche forma di composizione e di dialogo è questione su cui Maritain ha cambiato idea più volte. Maritain ha oscillato verso la seconda alternativa, quella del compromesso, in particolare durante e dopo l’epoca dei fascismi, ritenendo – o almeno così ne ricostruisce le motivazioni Del Noce – che una condanna radicale del processo rivoluzionario portasse «inevitabilmente» ad «atteggiamenti pro fascisti»: «non per nulla il principale discepolo recente di Donoso Cortés [Juan, 1809-1853, teorico spagnolo della Contro-Rivoluzione] è stato C.[arl] Schmitt [1888-1985, giurista e filosofo tedesco che aderì a suo tempo al Partito Nazionalsocialista]» (ibid.).

Resta, tuttavia, una visione della storia che secondo Del Noce sarebbe comune alla scuola contro-rivoluzionaria, a Leone XIII, a Maritain ma anche – cambiata di segno quanto al giudizio di valore, cioè intesa come «processo verso la pienezza» anziché «verso la catastrofe» (ibid., 400) – alle prospettive laiciste dominanti. Per Del Noce la visione contro-rivoluzionaria della modernità come processo rivoluzionario lineare che avanza in direzione della scristianizzazione, e dunque «di un processo unitario della filosofia moderna» (ibid.), non solo è in «simmetria» (ibid.) con una lettura laicista uguale e contraria, ma in un certo senso ne dipende in posizione di «subalternità» (ibid., 527). Per usare un’espressione che non è di Del Noce, si potrebbe dire che il filosofo di Pistoia accusa la lettura contro-rivoluzionaria della storia europea – che coinvolge Leone XIII e anche Maritain, non solo nella sua fase giovanile – di regalare la modernità ai laicisti. Dal momento che la modernità appare inevitabilmente vittoriosa, questa lettura preparerebbe dunque la sconfitta dei cattolici. E peggio: una volta presa coscienza della sconfitta, secondo l’idea di «rovesciamento» che è tipica della visione storiografica di Del Noce, la lettura contro-rivoluzionaria della modernità rischierebbe di «rovesciarsi» nel «progressismo». come dimostrerebbero gli itinerari personali di Félicité de Lamennais (1782-1854), per certi versi di Vincenzo Gioberti (1801-1852) e dello stesso Maritain, salvo l’ulteriore passo indietro di quest’ultimo nell’ultimo periodo di vita, come reazione a eccessi progressisti di cui peraltro era egli stesso corresponsabile (ibid.).

Intendiamoci: Del Noce riconosce alla scuola contro-rivoluzionaria il merito di avere colto il carattere profondo di un pensiero che va da Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) a Karl Marx (1818-1883) e oltre. Qui la negazione del peccato originale porta a sostituire la politica alla religione come strumento di salvezza. In questa prospettiva anche Del Noce parla di Rivoluzione con la R maiuscola come processo unitario: «Per varie che possano essere le forme rivoluzionarie, intese in questo senso, – scrive – il loro tratto comune è la correlazione tra l’elevazione della politica a religione e la negazione del soprannaturale. La Rivoluzione, con la maiuscola e senza plurale, è quell’evento unico, doloroso come i travagli del parto (la metafora che torna continuamente nei suoi teorici) che media il passaggio dal regno della necessità a quello della libertà, raffigurato questo, né può essere altrimenti, attraverso la semplice generica negazione delle istituzioni del passato (società senza stato, senza chiese, senza eserciti, senza delitti, senza magistratura, senza polizia…); che genera un avvenire in cui non ci sarà più nulla di simile alla vecchia storia; che, in ciò, è la risoluzione del mistero della storia» (ibid., 362).

È una pagina molto bella, anche dal punto di vista letterario, che conferma la frequentazione dei classici della Contro-Rivoluzione da parte di Del Noce. Dov’è, allora, il dissenso? Il filosofo italiano pensa che le origini della Rivoluzione «con la maiuscola» «siano abbastanza recenti, non antecedenti a Rousseau» (ibid.): quello che viene prima non è tanto rivoluzionario quanto ambiguo. Sullo sfondo c’è qui la polemica con l’opera di Maritain più apprezzata dagli ambienti contro-rivoluzionari, Tre riformatori, il cui sottotitolo – Lutero - Cartesio - Rousseau (Maritain 1967) – indica già l’elemento da cui dissente Del Noce. In verità, il dissenso non riguarda tanto Lutero quanto Cartesio (René Descartes, 1596-1650). Secondo Del Noce quando si applica lo schema contro-rivoluzionario – che poi coincide con quello laicista, salvo come si è accennato il giudizio di valore diametralmente opposto – alla storia della filosofia si arriva fatalmente a quattro conclusioni: «1) l’inizio cartesiano della filosofia moderna; 2) l’opposizione radicale fra Cartesio e Pascal [Blaise, filosofo e teologo francese, 1623-1662]; 3) il fallimento di una nuova scolastica, costruita sull’accordo tra pensiero cristiano e cartesianismo, in Malebranche [Nicolas, C.O., teologo e filosofo francese, 1638-1715]; 4) l’inconsapevolezza, in Vico [Giambattista, filosofo napoletano, 1668-1744], della sua reale posizione storica, per cui la sua filosofia esemplificherebbe, nel modo più perfetto, la sua teoria dell’eterogenesi dei fini» (Del Noce 1964, 402).

Principalmente nel suo libro Il problema dell’ateismo (ibid.), ma anche altrove, Del Noce ha avvertito come suo compito quello di smontare pezzo per pezzo questa visione della filosofia moderna, mantenendone soltanto il primo punto – l’inizio cartesiano –, in quanto anche per il filosofo di Pistoia «ogni filosofia moderna si costituisce nell’orizzonte storico che il cartesianismo ha determinato» (ibid., 405). Tuttavia secondo Del Noce la rappresentazione comune di Cartesio, da manuale scolastico (ma anche da Tre riformatori di Maritain), è ingannevole (Del Noce 1965). In verità nel pensiero del filosofo francese coesistono spunti molto diversi: alcuni, certo, suscettibili di essere continuati in senso anticristiano, altri invece profondamente e sinceramente cristiani. Da questi ultimi parte una versione cristiana della modernità che passa per alcuni aspetti del pensiero di Pascal, la cui contrapposizione a Cartesio è dunque esagerata (e lo è, talora, da Pascal stesso), per Malebranche e per Vico e arriva fino al beato Antonio Rosmini-Serbati (1797-1855).

Del Noce si rende conto che ognuno di questi passaggi è problematico. Affermare per esempio che «Malebranche è il tramite tra il cartesianismo e il pensiero italiano da Vico a Rosmini» (Del Noce 1964, 493) presuppone un’analisi delle critiche di Vico a Cartesio che ne restringa la portata solo ad alcuni aspetti del pensiero cartesiano (Del Noce 1965, 653), e una forte riaffermazione della tesi del «malebranchismo di Vico» (ibid., 652; Del Noce 1964, 481), che di per sé quando Del Noce scriveva non era nuova, ma era stata anche fortemente criticata. E su Pascal il filosofo di Pistoia ammette che «in Pascal il più radicale cartesianismo coincide col più radicale anticartesianismo» (Del Noce 1965, 642). Del Noce stesso ha insegnato che la storia della filosofia è una vera scienza nel senso moderno del termine, le cui acquisizioni possono sempre essere rimesse in discussione da nuovi studi e documenti. Non possiamo certo risolvere qui le complesse questioni legate alla lettura che Del Noce propone di ciascuno dei pensatori che prende in esame.

Possiamo però cercare di capire qual era per Del Noce la posta in gioco. Per lui la linea che va da Rousseau a Marx e oltre fino al 1968 è un processo che non è sbagliato chiamare rivoluzionario, nel senso di una « Rivoluzione, con la maiuscola e senza plurale». Non è neppure sbagliato, a rigore, trovare in Lutero elementi che hanno a che fare con questo processo, i quali coesistono peraltro con aspetti diversi. E tuttavia c’è un altro «processo unitario» (Del Noce 1964, 509) che lega pensatori pure fra loro diversi come il Cartesio cristiano, Pascal, Malebranche, Vico e Rosmini – cui Del Noce è andato progressivamente aggiungendo, attribuendogli un ruolo sempre più importante, il calvinista olandese Arnold Geulincx (1624-1669), in cui peraltro vi è un dubbio «scettico-mistico» (ibid., 492) sulla capacità della ragione di conoscere le cose come veramente sono che apre la strada verso Immanuel Kant (1724-1804). Non vi è tra costoro identità di pensiero ma «identità dell’avversario» (ibid., 508), che è l’ateismo moderno come esito fatale del processo rivoluzionario.

Per Del Noce, dunque, ci sono due modernità: quella rivoluzionaria e quella cristiana. La visione contro-rivoluzionaria della storia accolta da Leone XIII, secondo il filosofo di Pistoia, dimentica o sottovaluta la seconda modernità, la linea che va da Cartesio a Vico e a Rosmini. Così facendo, si espone al rischio di adottare lo schema storico-filosofico dell’avversario laicista e a quello più grave di «rovesciarsi» nel progressismo, una volta constatato che questo avversario ha vinto. Paragonando de Maistre a Vico, Del Noce sottolinea le somiglianze nella critica alla deriva della modernità verso l’ateismo ma afferma che in Vico c’è «non la semplice negazione del moderno, ma l’enucleazione in esso di un momento positivo che non è però quello illuministico e rivoluzionario» (ibid., 528). Rinunciare ad avvalersi di questo «momento positivo» sarebbe il limite della Contro-Rivoluzione e dello stesso Leone XIII.

Dal punto di vista, che è il mio, di un cattolico contro-rivoluzionario che cosa pensare di questa analisi di Del Noce? E – per formulare il quesito in un modo che sarebbe forse piaciuto al filosofo nato a Pistoia – com’è possibile essere contro-rivoluzionari dopo Del Noce? Anzitutto, non si può non riconoscere quanto il confronto intellettuale e le conversazioni con Del Noce abbiano aiutato a crescere la generazione che è alle origini di un’associazione che si dichiara esplicitamente contro-rivoluzionaria come Alleanza Cattolica. Queste conversazioni forse ai più giovani oggi mancano, anche se le provocazioni di Del Noce si ritrovano in autori contemporanei come la storica statunitense di origine tedesca Gertrude Himmelfarb, che in un certo senso va oltre Del Noce distinguendo una linea anticristiana e una compatibile con il cristianesimo anche nello stesso illuminismo, particolarmente in quello britannico (Himmelfarb 2004). Il 12 maggio 2010 a Lisbona Benedetto XVI ha messo in luce il corretto atteggiamento nei confronti di queste provocazioni: «la Chiesa, partendo da una rinnovata consapevolezza della tradizione cattolica, prende sul serio e discerne, trasfigura e supera le critiche che sono alla base delle forze che hanno caratterizzato la modernità, ossia la Riforma e l’Illuminismo. Così da sé stessa [con il Concilio Vaticano II] la Chiesa accoglieva e ricreava il meglio delle istanze della modernità, da un lato superandole e, dall’altro evitando i suoi errori e vicoli senza uscita» (Benedetto XVI 2010).

Del Noce ci ha certamente aiutato a vedere i limiti di qualunque schema che passi da Lutero alla Rivoluzione francese saltando a pié pari le complessità del Seicento e del primo Settecento, così come abbiamo accolto il suo invito a rileggere con simpatia Vico e ad apprezzare le ragioni di Rosmini fino alla sua recente beatificazione, anche se forse abbiamo letto meno Malebranche, per non parlare di Geulincx. Fa parte del legato di Del Noce anche l’attenzione particolare al Seicento e al barocco, sia contro le sue svalutazioni laiciste sia contro le falsificazioni che vorrebbero vedere in quanto nel barocco e perfino in autori come Vico vi è di bello e di grande una paradossale anticipazione dell’illuminismo. Quest’ultima posizione inficia, per esempio, gli elementi d’interpretazione proposti nel catalogo ufficiale delle sei mostre napoletane del 2009-2010 Ritorno al barocco (Sapio, Giannotti e La Marca 2009), mostre splendide dal punto di vista dei pezzi esposti ma discutibili quanto all’interpretazione ideologica proposta al visitatore. Del Noce ci ha appunto insegnato che non si tratta qui di questioni meramente estetiche o turistiche, ma di battaglie culturali di primaria importanza, e questo è oggi tanto più importante in presenza di un pontefice come Benedetto XVI che si autodefinisce «un uomo del barocco» (Benedetto XVI 2008).

Soprattutto, Del Noce con le sue critiche ci ha obbligati a riflettere sulla distinzione fra una nozione cronologica e una ideologica di modernità. Non tutti coloro che sono vissuti e vivono nell’epoca moderna appartengono alla «modernità» come categoria ideologica. Occorre distinguere fra moderno e contemporaneo, e il fatto che Vico termini la sua vita in piena epoca dell’illuminismo non ne fa – benché appunto si vada sostenendo, ma infondatamente, anche il contrario – un illuminista. Ancora, Benedetto XVI invita come si è visto a distinguere nella modernità le domande in parte giuste e le risposte sbagliate, i veri problemi e le false soluzioni, le «istanze», di cui la Chiesa si è fatta carico nella loro parte migliore – ma «superandole» –, e gli «errori e vicoli senza uscita» (Benedetto XVI 2010) in cui la linea prevalente della modernità ha fatto precipitare queste istanze, ultimamente travolgendo e negando quanto nel loro originario momento esigenziale potevano avere di ragionevole e di condivisibile.

Con altrettanta serenità, e senza rinnegare l’affetto e la gratitudine per Del Noce – che da parte sua seguì sempre con grande simpatia e benevolenza le attività di Alleanza Cattolica –, possiamo dire che la sua critica del pensiero contro-rivoluzionario e dell’orizzonte storiografico che fa da sfondo al Corpus di Leone XIII non ci ha indotto ad abbandonare il riferimento tematico alla Contro-Rivoluzione. Per quanto autori di scuola contro-rivoluzionaria abbiano parlato abbastanza male di Cartesio, e talora anche di Pascal e del beato Rosmini, non ci sembra che stia nella critica di questi autori l’essenziale dello schema contro-rivoluzionario. Del resto, l’intreccio fra storia della filosofia e storia della scuola contro-rivoluzionaria è più complesso di quanto possa sembrare a prima vista. Se vi è nella letteratura filosofica di lingua francese un continuatore della linea cara a Del Noce che da certi aspetti di Cartesio va a Malebranche questo è il cardinale Hyacinthe-Sigismond Gerdil B. (1718-1802: cfr. Del Noce 1965, 653). Ora, è nota l’influenza di Gerdil su de Maistre e su tutto il mondo francofono che è alle origini della scuola contro-rivoluzionaria. E dello stesso Rosmini si è potuto scrivere che originariamente «forma il suo pensiero sulla letteratura contro-rivoluzionaria, in specie del conte savoiardo Joseph de Maistre» (Cantoni 2010, 79) – il che, beninteso, non comporta che si possano ascrivere alla scuola contro-rivoluzionaria tutte le opere del beato di Rovereto. Analoghe indagini andrebbero condotte su Vico. La contrapposizione fra il «momento positivo» del moderno di Del Noce e l’«antimoderno» contro-rivoluzionario non è rigida, anzi le due linee s’incontrano e s’intersecano più volte.

Il pensiero contro-rivoluzionario postula essenzialmente che la modernità come ideologia – che è cosa diversa dall’epoca moderna come semplice dato cronologico – abbia un orientamento nettamente prevalente di tipo laicista e anticristiano. Lo stesso Del Noce nelle sue analisi dell’ateismo moderno, del marxismo, del progressismo cattolico e del 1968 ha confermato questo postulato. Il fatto che nello scorrere della storia moderna si siano manifestati anche pensatori cristiani – così come sono apparsi, grazie a Dio, tanti santi – non modifica la conclusione secondo cui il carattere dominante della modernità è la deriva anticristiana e laicista.

La deriva non è «necessaria» di diritto, come pensa un certo tradizionalismo non cristiano sedotto da visioni pagane o orientali della storia come decadenza obbligatoria da un’età dell’oro originaria verso l’età oscura chiamata dai libri sacri induisti Kali Yuga, in cui tutti coloro che hanno la sventura di vivere in una determinata epoca sarebbero volenti o nolenti coinvolti. Questa prospettiva non solo non resiste alla critica dell’«antimoderno» proposta da Del Noce, ma nel suo nucleo profondo nega la libertà umana sottomettendola deterministicamente alla storia e ai suoi «cicli», così da rivelarsi incompatibile con il cristianesimo. Tuttavia, la scuola contro-rivoluzionaria non sostiene – certamente nelle sue articolazioni più mature, ma in realtà già nelle sue origini – la necessità di diritto di una deriva anticristiana della modernità. La constata leggendo la storia, dove la nobilissima resistenza di stili di pensiero alternativi non inficia la conclusione secondo cui la linea della modernità come ideologia si afferma come culturalmente, sociologicamente e politicamente dominante. Si può anche sostenere che la deriva rivoluzionaria e anticristiana obbedisce a una «necessità», non però di diritto ma di fatto: una volta poste certe premesse intellettuali, le conseguenze seguono.

Grati a Del Noce degli elementi di riflessione che ci ha offerto, anche donando con generosità il suo tempo a chi di noi era allora molto giovane, abbiamo pertanto mantenuto il nostro spirito contro-rivoluzionario e «antimoderno». Le sue critiche ci hanno semmai aiutato a precisare il significato di queste espressioni e a evitare trappole e fraintendimenti. A Del Noce possiamo dunque promettere oggi, con affetto, una vigilanza che a fronte di passati errori altrui veglierà a evitare ogni possibile «rovesciamento» dell’antimoderno nell’ultramoderno progressista sulla scia di Lamennais e di un certo Maritain.

E tuttavia la nostra posizione è chiara. Alla scuola di Benedetto XVI ci sforziamo di accogliere le domande della modernità, ma non possiamo accettare le risposte di un’ideologia che comporta il rifiuto della tradizione e l’idolatria del presente. In Portogallo il Papa ha appunto denunciato l’ideologia che «assolutizza il presente, staccandolo dal patrimonio culturale del passato» (Benedetto XVI 2010) e quindi fatalmente finisce per presentarsi «senza l’intenzione di delineare un futuro» (ibid.). Considerare il presente la sola «fonte ispiratrice del senso della vita» (ibid.), il che è l’essenza della modernità come ideologia, porta a svalutare e attaccare la tradizione, che in Portogallo – e non solo – «ha dato origine a ciò che possiamo chiamare una “sapienza”, cioè, un senso della vita e della storia di cui facevano parte un universo etico e un “ideale” da adempiere» (ibid.), strettamente legati all’idea di verità e all’identificazione di questa verità con Gesù Cristo. Dunque «si rivela drammatico il tentativo di trovare la verità al di fuori di Gesù Cristo» (ibid.): un altro elemento costitutivo del dramma della modernità.

Il «“conflitto” fra la tradizione e il presente si esprime nella crisi della verità, ma unicamente questa può orientare e tracciare il sentiero di una esistenza riuscita» (ibid.). In questo conflitto la Chiesa non ha dubbi su da che parte stare. «La Chiesa appare come la grande paladina di una sana ed alta tradizione» (ibid.): parole di Benedetto XVI che richiamano – certo con uno stile e un linguaggio diverso – quelle del suo predecessore san Pio X nella lettera apostolica del 1910, di cui pure ricorre il centenario, Notre charge apostolique secondo cui «i veri amici del popolo non sono né rivoluzionari, né innovatori, ma tradizionalisti» (Pio X 1910, n. 44).

La difesa della verità contro il culto relativistico e anti-tradizionale del presente è una missione «per la Chiesa irrinunciabile» (Benedetto XVI 2010), ripete Benedetto XVI. «Infatti il popolo, che smette di sapere quale sia la propria verità, finisce perduto nei labirinti del tempo e della storia» (ibid.). Sulla necessità di un filo d’Arianna costituito dalla tradizione cattolica per uscire da questi labirinti Del Noce sarebbe stato d’accordo: e di questo filo egli fu anzi impareggiabile tessitore. Anche per questo merita oggi la nostra gratitudine.


Riferimenti

Augé, Guy. 19952. Les Blancs d’Espagne. Contribution à l’étude d’une composante du royalisme français contemporain, Association des Amis de Guy Augé - La Légitimité, Parigi.

Benedetto XVI. 2008. Intervista concessa dal Santo Padre Benedetto XVI ai giornalisti durante il volo verso la Francia, del 12-9-2008. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/5ooy8n.

Benedetto XVI. 2010. Incontro con il mondo della cultura, Centro Cultural de Belém, Lisbona, del 12-5-2010. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/37wsv92.

Brunschvicg, Léon. 1928. Le Progrès de la conscience dans la philosophie occidentale. 2 voll. Presses Universitaires de France, Parigi.

Cantoni, Ignazio. 2010. «Beato Antonio Rosmini-Serbati (1797-1855)». Cristianità, anno XXXVIII, n. 355, gennaio-marzo 2010, pp. 79-83.

Corrêa de Oliveira, Plinio. s.d. «San Pio X». Conferenza inedita.

Del Noce, Augusto. 1964. Il problema dell’ateismo. Il Mulino, Bologna.

Del Noce, Augusto. 1965. Riforma cattolica e filosofia moderna. Volume I: Cartesio. Il Mulino, Bologna.

Del Noce, Augusto. 1977. Il marxismo di Gramsci e la religione (CRIS Documenti, n. 35). Centro Romano di Incontri Sacerdotali (CRIS), Roma.

Del Noce, Augusto. 2005. Pensiero della Chiesa e filosofia contemporanea. Leone XIII / Paolo VI / Giovanni Paolo II. A cura di Leonardo Santorsola. Studium, Roma.

Gilson, Étienne. 1960. Le Philosophe et la théologie. A. Fayard, Parigi.

Himmelfarb, Gertrude. 2004. The Roads to Modernity. The British, French and American Enlightenments. Knopf, New York.

Leone XIII. 1902. Lettera enciclica Pervenuti all’anno vigesimo quinto, del 19-3-2002.

Maritain, Jacques. 1967. Tre riformatori. Lutero - Cartesio - Rousseau. Trad. it. Morcelliana, Brescia.

Pio X, 1910. La concezione secolarizzata della democrazia. Lettera agli Arcivescovi e ai Vescovi francesi «Notre charge apostolique», del 25-8-1910 [trad. it., Cristianità, Piacenza 1993].

Sapio, Maria - Maria Teresa Giannotti - Tiziana La Marca (a cura di). 2009. Ritorno al barocco. Da Caravaggio a Vanvitelli. Electa, Napoli.

Comunicazione di Mons. Prof Antonio Livi: Del Noce e Gilson

Augusto Del Noce è tra i pochissimi studiosi italiani che hanno conosciuto, capito e apprezzato il pensiero di Etienne Gilson; io, che al pensatore francese ho dedicato tanti studi e tante iniziative di tipo “promozionale”, considerandolo il mio primo maestro1, ricordo che negli anni Settanta mi sorprese molto e mi rallegrò ancora di più vedere come Augusto Del Noce fosse capace di capire Gilson e di entrare in piena sintonia di pensiero con lui (indubbiamente, più di chiunque altro in Italia). Ma quale fu il punto di contatto tra il filosofo francese e quello italiano? Fu proprio il metodo filosofico, il modo specifico di fare filosofia in rapporto alle motivazioni profonde che guidavano i due filosofi nel loro impegno intellettuale e nelle scelte di campo che erano chiamati a fare in un mondo come quello di oggi. E qui viene a proposito il racconto di un episodio della biografia di Del Noce che può sembrare di poco conto (si tratta, tutto sommato, di un evento occasionale) ma è tipico di quel modo di fare filosofia che caratterizza i “filosofi della libertà e dell’esistenza”.

Lo so per certo, per ammissione dello stesso Del Noce, che l’incontro con Gilson fu occasionale; a differenza di quello che feci io – che andai a cercare Gilson e lo frequentai a lungo - , Del Noce non sentì particolare interesse per il collega francese (pur essendo la Francia la sua patria d’adozione dal punto di vista culturale) e lo incasellò, come facevano tutti in Italia in quegli anni (e ancora oggi), nell’innocua casella degli “storici della filosofia”. Ma vedendo in libreria l’ancora non tradotto saggio su Réalisme thomiste et critique de la connaissance, superato l’iniziale fastidio che tutti i non tomisti avvertono di fronte all’aggettivo “tomista”, Del Noce lesse il libro di Gilson con l’attenzione che gli era solita e la penetrazione straordinaria di cui lui solo era capace. La conclusione fu che l’argomentazione gilsoniana lo convinse pienamente, a tal punto da dire – da allora in poi – che Gilson era colui che meglio di chiunque altro aveva capito l’opposizione polare tra realismo e immanentismo, e che solo la sua posizione – il “realismo metodico” - poteva vantare un’assoluta coerenza logica. Alla fine, Del Noce non esitava a scrivere che Gilson era a suo giudizio il più grande pensatore del Novecento, da affiancare – perché di pari importanza – a Giovanni Gentile, il quale però aveva portato la filosofia e la politica nel vicolo cieco del più coerente immanentismo, a quel “suicidio del pensiero” che Del Noce riteneva strettamente collegato al “suicidio della rivoluzione”2.

Un comune metodo di pensiero


Ma qual era il motivo profondo di tanto entusiasmo? Che cosa aveva determinato tanta sintonia speculativa tra i due pensatori? Si penserà che essi avevano in comune il lavoro storiografico, adoperato come base per gli sviluppi teoretici in ogni direzione (la gnoselogia, la teologia naturale, l’etica, la politica). Questo è vero, ma spiega solo in parte la sintonia tra i due filosofi. Non dimentichiamo infatti che gli studi di Del Noce furono tutti in materia di filosofia moderna (da Malebranche a Gioberti, e poi da Descartes a Rosmini) e di filosofia contemporanea (da Giuseppe Renzi a Lev Sestov, da Giuseppe Capograssi a Enrico Castelli), mentre gli studi di Gilson furono – dopo le iniziali analisi della filosofia cartesiana - tutti in materia di filosofia medioevale. Non è quindi la materia di studio l’elemento comune.

L’elemento comune è invece il metodo del pensiero. Perché sia Gilson che Del Noce intendono la filosofia come comprensione profonda e globale del mondo in cui vivono e operano, de questo attraverso l’individuazione delle radici storiche che rendono ragione delle convinzioni teoretiche e delle opzioni pratiche operanti nel loro mondo. Il mondo di entrambi è stato quello dell’Occidente cristiano (scristianizzato), nel quale operano due diverse opzioni intellettuali: da una parte, l’opzione del realismo metafisico (che parte da Vico e giunge fino a Bergson, passando da Rosmini e Newman), dall’altra quella dell’immanentismo (che ha inizio con il razionalismo cartesiano e si conclude con l’idealismo di Hegel e di Gentile). Il realismo metafisico è un pensiero sostanziato di logica aletica: esso infatti ancora la verità alla trascendenza gnoseologica e ne individua la fonte nella Trascendenza ontologica, vedendo pertanto nella realtà creata una razionalità che ha origine trascendente (l’idea divina) e per questo è norma per la verità dell’agire umano (la “legge naturale”); questa opzione, minoritaria ai nostri giorni, si riconosce nella tradizione classica e medioevale ma è anche fiera della propria capacità di creare nuove prospettive, ivi compreso l’ideale politico o “utopia” (Tommaso Campanella, Thomas More) e l’ermeneutica storica come “scienza nuova” (Giambattista Vico). Invece l’immanentismo (tanto nella versione iniziale, che era stata quella razionalistica, che nella versione finale, che fu quella idealistica) è il pensiero della rivoluzione, della rottura con la tradizione, dell’abolizione di ogni fondamento oggettivo per l’etica, della pretesa di dare origine a una nuova umanità e a un nuovo mondo, come opera delle mani dell’uomo. Ogni aspetto teoretico e pratico dell’immanentismo – la secolarizzazione, l’ateismo, il relativismo o il formalismo morale, il nichilismo, la deriva totalitaria - ha la sua giustificazione ultima nell’opzione gnoseologica, in quella che Carlos Cardona chiamava l’opzione intellettuale; per contro, ogni critica di quelle forme di immanentismo che prima citavo non può avere successo se non giunge a criticare il nucleo gnoseologico dell’opzione. E’ proprio per questo motivo che il problema gnoseologico – con la sua intrinseca dimensione storica - è centrale nel capire e nel risolvere i problemi del nostro tempo: è appunto ciò che Del Noce ha compreso e che poi ha ritrovato nella lettura delle opere di Gilson, a cominciare da Réalisme thomiste et critique de la connaissance.

Il metodo di Gilson consiste nell’individuare nelle idee filosofiche una necessità intrinseca, una necessità che costituisce una vera e propria legge storica, la legge che regola lo sviluppo delle idee. I filosofi hanno una libertà di azione quasi illimitata: possono scegliere il campo della loro ricerca, il metodo di indagine, il rapporto con la tradizione, il modo o i modi per esprimere le conclusioni del loro lavoro e per far accettare agli altri le loro convinzioni… Tutto è oggetto di libera scelta, meno gli esiti speculativi delle idee filosofiche che si trovano ad adottare. Le idee filosofiche portano necessariamente a certi esiti, indipendentemente dalle intenzioni e dalle pretese del filosofo che le adotta. Descartes, per esempio, adottò l’idea della certezza matematica come modello della scienza in generale e della filosofia in particolare, e non poteva derivarne che un sistema soggettivistico di tipo razionalistico, dove la realtà del mondo è mediata dalle idee chiare e distinte e si perdono irrimediabilmente l’unità dell’uomo, la legge naturale, la trascendenza di Dio: si perdono proprio quelle dimensioni metafisiche del reale che pure erano l’essenza delle categorie filosofiche scolastiche utilizzate da Descartes nel costruire il suo sistema (la categoria di creazione del mondo da parte di Dio, la categoria di anima immortale, la categoria di libero arbitrio) . Così pensò e scrisse Gilson, e così pensò e scrisse per conto suo anche Del Noce, il quale però vide nel sistema cartesiano anche un’idea (agostiniana) che avrebbe potuto avere esiti diversi, di tipo realistico3.

La centralità dell’esperienza storica


Come possa questa metodologia storiografica sfuggire all’accusa di idealismo – o, meglio, di storicismo idealistico – è presto detto. La necessità intrinseca dello sviluppo delle idee filosofiche non risponde, in Gilson e in Del Noce, all’apriorismo astratto delle metafisiche idealistiche o dello storicismo positivistico: risponde invece all’osservazione attenta e penetrante della realtà empirica in tutta la sua complessità, risponde ai protocolli dell’esperienza storica fedelmente applicati all’ermeneutica storiografica. In Gilson, come in Del Noce, non sono le tesi teoriche – siano esse metafissiche, o logiche, o socio-economiche – a determinare l’interpretazione della storia della filosofia; nei due grandi filosofi del Novecento la metodologia storiografica è davvero autonoma da presupposti arbitrari: essa si fonda su induzioni di carattere schiettamente sperimentale, arriva cioè a stabilire delle leggi universali sulla base di fatti accuratamente esaminati e valutati attraverso il confronto con fatti analoghi. Alla fine, è l’esperienza storica - ossia ciò che risulta dall’indagine storiografica, applicando ai fatti le regole della corretta induzione – a determinare l’orientamento speculativo, che proprio per questo risulta inattaccabile sul piano della dialettica filosofica (è invece attaccabile, come di fatto fu attaccato, sul piano della polemica ideologica). Si pensi alla forza con cui Gilson ha sempre difeso la sua nozione di “filosofia cristiana” o di “realismo”; si pensi poi alla forza con cui Del Noce ha difeso la sua nozione di “ontologismo” e ha scoperto la comune radice di fascismo (Giovanni Gentile) e di comunismo (Antonio Gramsci), potendo così proporre un progetto politico alternativo ad entrambi4; si pensi infine al rifiuto – netto e inequivocabile in entrambi – di compromessi teoretici tra cristianesimo e marxismo e di strategie comuni tra cattolici e comunisti.

Per concludere parlando direttamente ed esclusivamente di Del Noce, voglio far notare – per chi conosce bene il suo pensiero e le sue prese di posizione su molteplici argomenti – come il realismo politico di cui è stato campione e maestro si configuri talvolta come sorprendente capacità di svolgere da filosofo una funzione che senza esitazioni chiamerei “profetica”: è la funzione critica di chi denuncia mali presenti e prospettive future senza lasciarsi intimorire dall’impopolarità, senza paura di sembrare un visionario (in un mondo di idealisti, consapevoli e inconsapevoli, un vero realista può sembrfare un visionario), animato soltanto dall’amore per la verità, forte soltanto della certezza di dire il vero. Ciò dipende - ne sono certo – direttamente e totalmente dalla forza insuperabile della logica, quando essa deriva dalla realtà (conosciuta), e alla realtà (da valutare) viene applicata con tutto il rigore della razionalità libera da condizionamenti ideologici. Un esempio davvero significativo: prima ancora che avvenisse il crollo del comunismo mondiale (almeno in Europa), e prima ancora che il capitalismo mondiale cominciasse a riempire il vuoto lasciato dal comunismo con i suoi sistemi di vita (secolarizzazione, consumismo, edonismo, immoralismo), Augusto Del Noce prevedeva i danni che ne sarebbero derivati, quegli stessi danni che molti oggi lamentano, e tra questi anzitutto il papa Giovannni Paolo II. Domenico Settembrini racconta che Del Noce gli disse: “Voi sapete quanto io detesti il comunismo: ebbene, se l’unica alternativa – cosa che non credo – dovesse essere la società consumistica, sceglierei il comunismo”5. Si potrebbe dire: sono parole di un utopista; come si fa a opporsi a un processo ineluttabile come quello che ha portato e sempre di più porterà all’egemonia del sistema capitalistico? Come si fa ad andare contro la globalizzazione? Ebbene: Augusto Del Noce fu creduto un sognatore quando prevedeva il crollo del comunismo, e invece il suo pensiero si rivelò l’espressione del più acuto realismo politico, perché aveva saputo leggere nella realtà la legge che regola le idee politiche e le fa vivere o morire, facendo vivere o morire con esse i sistemi di potere che se ne servono; chi può essere certo che egli non abbia visto chiaro anche nel caso del capitalismo consumistico? Non sarà anch’esso condannato a crollare, perché in conflitto con la coscienza cristiana (questo per quanto riguarda le nazioni di antica tradizione cristiana, dove la scristianizzazione non avrà mai una vittoria completa e definitiva) ma anche e soprattutto (e questo vale per ogni parte del mondo) perché contrario alla legge naturale, alla natura dell’uomo e al bene comune della società?

Antonio Livi

martedì 4 maggio 2010

evento: tutti i dettagli

il Comitato per il centenario della nascita di Augusto Del Noce
PRESENTA

Augusto Del Noce: cultura e politica di fronte al suicidio della rivoluzione

partners
Alleanza Cattolica, Associazione John Locke, Biagioni Media

Il Congresso sarà tenuto domenica 16 maggio 2010 presso il Residence Artemura in Via Pietro Bozzi 6/8 a Pistoia.
ore 9 e 30 saluti e introduzione generale
Intervento dell'On. Rocco Buttiglione
Introduzione di Giovanni Cantoni
ore 10 e 40 prima sessione
Massimo Introvigne “Due centenari s’incontrano. Augusto Del Noce e il magistero di Leone XIII” Mauro Ronco "La linea di Vico- Rosmini come risposta all'ateismo nel pensiero di Augusto Del Noce."
ore 13 pausa pranzo con buffet
ore 15 seconda sessione
Maurizio Schoepflin "Del Noce filosofo inascoltato e controcorrente"
Lucia Palumbo "L'irreligione occidentale come affermazione della semplice tecnica"
Lavinia Peserico "Del Noce e il 1968"
Ore 18 Santa Messa in Cattedrale di San Zeno

si ringraziano:
Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia
http://www.fondazionecrpt.it/
Fondazione Giorgio Tesi
http://www.giorgiotesivivai.it/it/azienda/fondazione-giorgio-tesi/
Ottica Bruni Aligi
http://www.otticabrunialigi.it/
Agraria Checchi Silvano
http://www.agrariachecchi.it/

martedì 13 aprile 2010

COSÌ DEL NOCE SMASCHERÒ L ’ATEISMO

COSÌ DEL NOCE SMASCHERÒ L ’ATEISMO
UMBERTO GALEAZZI
In Augusto Del Noce lo studio dell’ateismo assume un valore apologetico del 'kerigma' cristiano: le ragioni dell’ateismo – disse –, proposte da più parti, non mi hanno mai convinto, sicché il procedere nella ricerca filosofica mi ha confermato, sempre più criticamente nella fede cattolica. Nel mondo contemporaneo si manifesta, secondo Del Noce, il 'carattere postulatorio' ('Il problema dell’ateismo') dell’ateismo, in quanto non è sostenuto da ragioni atte a giustificarlo, ma è frutto, come presupposto indiscutibile, di una scelta precedente l’indagine filosofica sulla realtà. Si tratta di una 'postulazione arbitraria', che non nasce da un’evidenza razionale, ma dalla pretesa dell’uomo di non essere quell’essere finito, che è, ma di essere l’assoluto o di farsi assoluto nel futuro: è il rifiuto della condizione creaturale e, quindi, della dipendenza dal Creatore. Sartre ha avuto l’onestà intellettuale di ammettere l’esito fallimentare della pretesa impossibile ('una passione inutile') dell’uomo di essere o farsi assoluto, riconoscendo che esso non si è creato da solo. Marx, invece, pretende che l’uomo si creerà perfetto, attraverso il lavoro e la prassi politica rivoluzionaria, dando vita ad una società perfetta; come se dicesse: giacché voglio che l’uomo sia creatore di sé, rifiuto il Creatore.
Ma il mito della società perfetta è andato incontro alle dure smentite della storia.
L’umanesimo ateo di Marx ha lanciato ai credenti una sfida decisiva: noi costruiremo una società perfetta, che eliminerà la religione, creando una sorta di paradiso in terra. Ma dall’esperimento (condotto a prezzo della vita di milioni di persone), invece della società perfetta, è scaturita la patria della disumanizzazione nei suoi molteplici aspetti. Non è semplicemente crollato un muro, ma tutta una visione dell’uomo, della realtà e della storia. Per una filosofia che aveva posto nella verifica storica il criterio di verità, la confutazione è clamorosa e ineludibile. Ciò che doveva confutare la religione è stato smentito e bisogna trarne razionalmente le conseguenze: se il tentativo di confutazione e di eliminazione è fallito, ciò che si intendeva confutare ed eliminare (la religione, il cristianesimo) risulta corroborato. Del Noce ci ha anche insegnato che l’esito disumanizzante dell’esperimento marxista dipende dall’opzione atea (confutando chi crede, senza conoscere i testi, che l’ateismo sia inessenziale nel marxismo).
In primo luogo perché il rifiuto ateo è anche negazione di un ordine morale superiore all’arbitrio umano; onde, ponendo come assoluto la futura società perfetta da realizzare, ci si ritiene legittimati a usare qualsiasi mezzo per conseguire la meta agognata. Si ha, così, la totale risoluzione e dissoluzione dell’etica nella politica, che diventa spregiudicata e tende a dar vita al potere totalitario. Inoltre, il rifiuto ateo è rifiuto di quel riconoscimento originario con cui Dio crea ogni essere umano perché lo vuole e lo ama, costituendolo nella sua inalienabile dignità, che esige, prima di tutto, rispetto; così quel rifiuto conduce all’annegamento del singolo uomo, considerato accidentale, nella vita del genere umano, al suo sacrificio per il mito della società perfetta. Perché Marx risolve l’uomo nei rapporti sociali, identifica l’essenza umana con il genere, negandola ai singoli uomini, la cui dignità viene trasferita nella società.

Del Noce: società radicale, che guaio!

Del Noce: società radicale, che guaio!

DI VITTORIO POSSENTI
Come ogni centenario, anche quello di Augusto Del Noce porta con sé bilanci, nuove letture e prospettive, all’insegna del «ciò che è vivo e ciò che è mor­to ». Seguendo di poco il centena­rio di Bobbio, amico e contraltare intellettuale, quello di Del Noce non avrà forse la stessa ampiezza d’iniziative ma non sarà meno si­gnificativo. Tra le varie possibilità di proseguire il suo lascito ne tocco qui una. Il problema dell’ateismo (1964), la sua opera maggiore, si incentrava sull’ateismo marxista, allora in pieno vigore ma oggi crol­lato miseramente: il «suicidio della rivoluzione», preconizzato da Del Noce, si è compiuto e accade quando il marxismo fa propria la lettura «borghese» e materialista della vita. «La ricomprensione ita­liana del marxismo attraverso la versione rivoluzionaria dello stori­cismo si risolve in una sua ricom­prensione illuministica» ( Il suici­dio della rivoluzione, 1978): il co­munismo in versione gramsciana diventa una componente sconsa­crata della società radicale, che consente allo spirito borghese di realizzarsi allo stato puro. Saint-Si­mon e Comte prevalgono su Marx e Gramsci. Il suicidio della rivolu­zione dipinto da Del Noce avviene attraverso la politica, in cui si in­tende creare l’uomo nuovo me­diante la prassi civile. L’esito è spesso stato fallimentare e sangui­noso, come nei totalitarismi. L’al­tra grande rivoluzione è quella at­traverso la scienza, e tutti siamo in grado di valutarne il successo, la potenza, e di non intravederne la fine. Essa non si suicida affatto, an­zi tenta di mettere mano sull’uo­mo e spesso ci riesce: non si auto­dissolve ma avanza promettendo benessere, salute e una quasi-im­mortalità. Caduto il marxismo, ri­mangono il relativismo morale e lo scientismo tecnologico. Dinanzi alle due forme della città degli atei, la comunista e la tecnocratica, sor­ge la domanda su quale sia la for­ma più radicale di ateismo: Marx o Comte? Ci sono buoni motivi per ritenere che l’ateismo scientistico sia più intenso, freddo e meno sog­getto a dubbi. Esso attua un tenta­tivo di mutazione antropologica attraverso le biotecnologie, una comprensione evoluzionistica dell’io come soggetto casuale, e tappa ogni minimo spazio entro cui possa sentirsi la nostalgia di Dio. L’ateo scientista non sente la mancanza di Dio come mancanza, è naturaliter irreligioso. Lo stesso problema dell’ateismo andrebbe ripensato a fondo in rapporto all’e­clissi dell’idea di Dio (e dell’uomo) che si verifica nell’attuale situazio­ne spirituale, richiedendo rinnova­te ricerche. La sequenza franco­italiana Cartesio-Pascal-Malebran­c
he- Vico-Rosmini in cui Del Noce vedeva – del resto con validi motivi – la linea della vita della filosofia moderna, non pare forse sufficien­te ad interpretare la vittoria dello scientismo e del deserto secolari­stico che esso veicola, e ad anima­re la necessaria resistenza. È natu­rale che anche il problema della secolarizzazione sia da ripensare, avvenendo essa oggi assai più at­traverso la natura e il naturalismo che attraverso la storia e lo storici­smo. La grave crisi dell’idea di Dio veicolata dall’obiezione scientisti­ca comporta l’attacco all’idea d’uomo. Lo scientismo sogna mol­to e si illude che, una volta elimi­nato Dio, sia possibile salvare in qualche modo l’uomo. Da ricorda­re sono le parole di Max Horkhei­mer: «Tutti i tentativi di fondazio­ne della morale su una saggezza di questo mondo anziché sul riferi­mento a un aldilà riposano su illu­sioni di impossibili concordanze».
Non è possibile mantenere fermo un senso assoluto senza Dio. Il marxismo teneva aperto uno spa­zio minimo – certo suo malgrado – per Dio poiché parlava d’aliena­zione e di giustizia, temi pericolosi per un ateismo conseguente. Ma lo scientismo? Esso si rifiuta di pensare. Sembra una frase ad ef­fetto ma è la pura verità quando u­no consideri le poche righe in cui Richard Dawkins vorrebbe liquida­re il problema Dio, e non fa altro che dipingere la sua completa in­consapevolezza filosofica del tema (cfr. L’orologiaio cieco ). Ora per ri­prendere alla base questi problemi ci si deve fondare su una filosofia che sia in potenza attiva verso il fu­turo, e Del Noce la individuò verso la fine della vita. Nel Giovanni G entile (1989) scrisse che lo scacco dell’idealismo riapriva la possibi­lità storica della filosofia dell’esse­re, ritrovata in specie attraverso Gilson. Così egli si ricongiungeva implicitamente alle idee di Felice Balbo che intorno agli anni ’60 a­veva con singolare acume specula­tivo indicato nella filosofia dell’es­sere di Tommaso la linea della vita del filosofare, nonostante le diver­sità di valutazione tra i due amici su non pochi punti: uniti però nel dare il primato a quel tomismo esi­stenziale (Maritain, Gilson, Fabro) che è il frutto migliore della filoso­fia dell’essere del XX secolo. Essi anticipavano il giudizio della Fides et ratio , secondo cui tale filosofia, fondata sull’atto stesso dell’essere, è aperta a tutta la realtà sino a rag­giungere Colui che a tutto dona compimento. Del Noce ha dunque indicato nella filosofia dell’essere l’edificio intellettuale che riapre il cammino dopo la crisi del neoi­dealismo gentiliano; diagnosi che andrebbe completata indicando nella stessa filosofia (e antropolo­gia) quella che può superare Com­te e il suo assoluto ateismo. Questo compito è lasciato a noi, insieme alla valorizzazione del realismo, che Del Noce colse ma non ebbe tempo di completare.
30 marzo 2010