giovedì 11 settembre 2014

CHARLOTTE ACVP



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Il Comitato fa parte adesso dell'associazione Charlotte ACVP che ha come fine la realizzazione di eventi, convegni, conferenze e produzioni video per promuovere la cultura cattolica attraverso la via della bellezza. Il cattolicesimo è vita e in quanto vita immagine e bellezza, come testimoniato da tre millenni di storia.

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promozione di autori di letteratura di buona stampa, presentazioni di libri e eventi culturali

arti visive
presentazioni di opere d'arte, autori e libri riguardanti la storia dell'arte, produzioni video e cortometraggi

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domenica 28 agosto 2011

La verità storica fondamento dell’identità e dell'unità nazionale - Paolo Martinucci

Paolo Martinucci



La verità storica fondamento dell’identità e dell'unità nazionale

Conferenza tenuta a Pistoia il 13 maggio 2011 organizzata da associazione Sant'Ignazio di Loyola in collaborazione con Alleanza Cattolica e Studenti per le libertà- Pistoia



1. Premessa

In questo periodo di celebrazioni del centocinquantesimo anniversario della proclamazione del Regno d'Italia, i termini Unità e Risorgimento sono frequentemente confusi, in una significazione non univoca, e vengono richiamati con un’enfasi che ora contagia anche gli eredi del partito che, per buona parte del secolo scorso, costituì il partito anti-nazionale e filo-sovietico, il Partito comunista italiano. Occorre quindi, prima di affrontare il tema in oggetto, rendere compiutamente comprensibili i due vocaboli, assegnando loro un preciso senso.

L’ “Unità” è un fatto essenzialmente militare e politico, che ha comportato modificazioni di carattere territoriale, istituzionale ed amministrativo. Essa rappresentò un’esigenza diffusa, esplicitata nel dibattito politico del tempo con una serie di proposte di soluzioni istituzionali che avevano coinvolto anche la Santa Sede[1]. Una forma di unificazione del Paese si rendeva quindi necessaria, in conseguenza dei problemi sociali e politici del tempo: la difficile convivenza tra le grandi potenze, data dalle rispettive politiche di spregiudicata rivalità militare e mercantile, nuoceva pure alle piccole entità statali italiane; queste erano poste ai margini di quello sviluppo economico ed industriale che allora caratterizzava l’Europa, relegate quindi in una condizione commerciale asfittica e contrastata da una miriade di barriere doganali. Inoltre non era privo di conseguenze per la nostra Penisola il nuovo contesto geo-politico, dato dal venir meno della “protezione” e della “mediazione” delle due grandi realtà sovranazionali, l’Impero e la Chiesa cattolica.

Il Risorgimento, invece, è un fenomeno preminentemente culturale, anzi una rivoluzione culturale che ha preceduto, accompagnato, guidato il processo di unificazione che ha cambiato profondamente l’identità italiana, nella prospettiva di una modernizzazione, che mirava al superamento di una presunta arretratezza e decadenza dell'Italia, ritenuta questa una conseguenza della Controriforma, per avvicinare il Paese agli Stati di cultura protestante2,.

Nel considerare l’Unità come un dato di fatto, è necessario fare subito una sottolineatura che sgombrerà da ogni possibile equivoco il senso di questo intervento. Occorre evitare due contrapposte posizioni retoriche: «da un lato l’acritica apologia dell’evento unitario, dall’altro lato il vittimismo e il rivendicazionismo, sia nella versione nordista del “chi ce l’ha fatto fare di caricarci il Sud?”, sia nella versione meridionalista del “maledetto il giorno in cui siete scesi!”»3. Se nel 1861 l’unificazione del territorio italiano in un'unica entità statale, in dispregio di ogni dato storico, istituzionale e culturale, costituì un’operazione giacobina, sarebbe altrettanto rivoluzionario pensare ora ad una disgregazione di un Paese, i cui abitanti da secoli hanno percepito, e tuttora percepiscono, di essere espressione di una unità culturale e religiosa, al di là delle frammentazioni politiche, delle differenze regionali e dei “mille campanili” che lo caratterizzano4.

Lo stesso Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha recentemente affermato: «[…] le celebrazioni di questo storico anniversario [siano] occasione di riflessione seria e non acritica, e insieme una valorizzazione di tutto quel che ci unisce come nazione»5.

Allora subito una domanda: il Risorgimento è l’unico punto di riferimento imprescindibile per determinare il sentimento di appartenenza nazionale?

Per i vertici istituzionali, ma anche, in generale, per gli storici accademici, sembrerebbe di sì. Sempre dal Quirinale, si è parlato del processo unitario, senza distinguerlo dal Risorgimento, come di «una grande stella polare»6 che ha guidato il cambiamento dell’Italia; per il Presidente della Camera, Gianfranco Fini, gli elementi culturali ed identitari alla base dell’unità sono «un dato socialmente e culturalmente assai forte»7. Se queste affermazioni, citate ad esempio, possono risultare quasi una scontata difesa d’ufficio dell’Unità/Risorgimento, in considerazione della “ragione sociale” della carica ricoperta, il dibattito in corso nel Paese, invece, registra un pluralità di opinioni e di valutazioni. Registriamo di seguito, ed in forma certamente selettiva e, quindi, non esaustiva della disamina del fenomeno, tra le innumerevoli pubblicazioni e gli articoli apparsi sulle pagine culturali dei maggiori quotidiani nazionali, alcune opinioni sulla disputa.

Aveva iniziato, nel lontano 1996, l’on. Luciano Violante a smuovere le acque stagnanti della questione, affermando: «[…] a differenza di altri Paesi europei [l’Italia] non ha ancora valori nazionali comunemente condivisi. […] Le due grandi vicende della storia nazionale, il Risorgimento e la Resistenza, hanno coinvolto solo una parte del Paese ed una parte delle forze politiche»8. Con l’avvicinarsi della ricorrenza del centocinquantesimo, si sono moltiplicate le analisi più veritiere dal punto di vista storiografico, ben diverse dalla vulgata risorgimentale proposta sui testi scolastici o nei corsi universitari.

Espressioni di una lettura critica di questa pagina della nostra storia sono gli scritti dello storico ed editorialista del Corriere della Sera Ernesto Galli Della Loggia, secondo il quale l’identità “nazionale” è ancora percepita come “fragile” e lo Stato unitario ha mantenuto un carattere ideologico, essendosi originato da una rivoluzione/guerra civile9. Sullo stesso giornale, Aldo Cazzullo parla di «italiani controvoglia» e di «scetticismo con cui i partiti e ambienti culturali diversi guardano ai 150 anni della nostra nazione»; e sottolinea come per la sinistra marxista-gramsciana, il Risorgimento è «non una rivoluzione sociale ma una rivoluzione nazionale», mentre per i cattolici, precisa, «si fece contro il Papa»10. Umberto Eco presenta il Risorgimento come una lotta fratricida: «Nel nostro Paese non c’è l’uccisione del padre come è successo altrove [Carlo I, Luigi XVI], ma il fratricidio: tutti sono abituati a combattersi tra loro»11. Il professor Gianpaolo Romanato analizzando la legislazione anticattolica dello Stato unitario, sostiene: «Italia liberale? Non con la Chiesa»12.

Nel Paese poi la discussione e la polemica hanno assunto colorazioni, a volte folcloristiche, che esprimono un viscerale disagio per come si è svolto il processo unitario; le posizioni leghiste e neoborboniche sono alimentate anche dalla cosiddetta storiografia revisionistica, che si è proposta con numerosissime pubblicazioni, le quali, come è stato detto, non costituiscono tutta la verità sul Risorgimento, ma di certo, presentano un «brutta verità»13. E che dire del ritratto di Garibaldi bruciato, alcuni mesi fa, in una piazza di una città veneta? O del rifiuto del presidente della provincia di Bolzano a partecipare alle celebrazioni?

Eppure, proprio da parte dei maggiori critici del processo risorgimentale, i cattolici, vengono forti richiami ad una maggiore coesione e solidarietà, ad una effettiva condivisione di quei valori che costituiscono il patrimonio identitario della nostra nazione.

La Grande preghiera per l’Italia di Giovanni Paolo II, recitata il 15 marzo 1994, nel corso della concelebrazione eucaristica con i vescovi italiani presso la tomba dell’Apostolo Pietro, è stata preceduta da una meditazione sulle radici dell’Italia stessa, che indicava, questa sì, una pluralità di “stelle polari” che dovevano essere poste a fondamento del nostro convivere civile: l’Italia, terra particolarmente benedetta dalla Provvidenza, custodisce l’eredità degli apostoli Pietro e Paolo, conserva un patrimonio di fede e di cultura, dato dalla compenetrazione delle civiltà greca e latina inverate nel Cristianesimo, che, nel corso del Medioevo, definito un periodo d’oro per la storia d’Italia, ha permeato la vita sociale e civile del Paese, attraverso l’esempio e la parola dei suoi innumerevoli Santi — tra cui San Benedetto, San Francesco, San Tommaso d’Aquinio, Santa Caterina da Siena — che ne hanno plasmato le caratteristiche culturali e religiose. La presenza del segretario di Stato, card. Tarcisio Bertone, a Porta Pia e la prolusione all’Assemblea generale della CEI del 24 maggio 2010, del card. Angelo Bagnasco, manifestano disponibilità ad un sano dialogo ed offrono un aiuto a un Paese che non riesce a definire una propria identità e non sa scorgere nella sua secolare storia le proprie radici. L’omelia del cardinale Camillo Ruini, pronunciata il 18 novembre 2003, davanti alle bare dei diciannove caduti di Nassirya, ha rappresentato una delle non molte occasioni in cui tanti italiani hanno vissuto un forte sentimento di appartenenza nazionale, forse mai provato nella loro esistenza. Interventi nobili e generosi, questi, che manifestano l’alto senso di responsabilità della Chiesa nei confronti dell’Italia ed una forma di amore di italiani verso la loro patria.

In ogni caso, se il contenuto del dibattito “laico” attorno al fenomeno in esame è quello espresso dalle affermazioni prima riportate, occorre constatare che, nonostante le lezioni di educazione civica e di storia sul tema siano da molti decenni impartite secondo la vulgata agiografica, obbligatoriamente in tutte le scuole di ogni ordine e grado, pubbliche e private, il Risorgimento non ha ancora conquistato la mente ed il cuore di tutti gli italiani.



2. La natura ideologica del Risorgimento

Qual è il motivo di questo continuo “processo” al Risorgimento?

Credo che esso sia da ricercare nel fatto che l’unificazione è avvenuta attraverso lotte sanguinose ed una mitizzazione dei fatti e dei personaggi che ha alterato o nascosto la verità storica. Il carattere mitologico, ideologico, che caratterizzò questo momento della storia italiana, diede origine ad un culto, ad una liturgia, ad una religione civile, che generarono una rivoluzione odonomastica, una spropositata collocazione di monumenti, di lapidi e di epigrafi; in poco tempo l’Italia diventò «un monumento pietrificato pressoché immutabile»14, «ondata monumentalistica di massa che, a partire dagli anni settanta, materializza gli alfabeti civili dell’Unità messa in posa»15. Questo vero e proprio culto dei “padri della Patria”, Garibaldi, Cavour, Vittorio Emanuele II, Mazzini, associato alla mitizzazione della monarchia sabauda in generale, è stato imposto nella prospettiva di dare concretezza politico-istituzionale-culturale a delle visioni del mondo e della società mutuate da filosofie sociali utopistiche, importate dalla Francia e dal Regno Unito. Lo stesso Cavour, che non conosceva il territorio italiano, ma molto bene l’Europa, aveva, secondo Vincenzo Gioberti, una formazione culturale anglo-francese16. Sostanzialmente il processo risorgimentale non era rispondente ai sentimenti e agl’interessi concreti della maggioranza dei popoli italiani.



3. Risorgimento o “Rivoluzione italiana”?

Il Risorgimento aveva come punto di riferimento ideale la Rivoluzione francese. E, dal punto di vista ideologico, il Risorgimento è conseguenza della Rivoluzione francese, anzi è la Rivoluzione francese in Italia; su questo gli storici concordano: è evidente un filo rosso che lega il cosiddetto “dispotismo illuminato” al giacobinismo, e questo alla rivoluzione italiana17, così come la Rivoluzione francese è figlia per molti aspetti dell’assolutismo monarchico, almeno per quanto riguarda la “pianificazione”, la “razionalizzazione” della vita sociale. I programmi di riforma sociale dei principi “illuminati”, studiati “a tavolino”, sono fatti propri e resi più radicali dai giacobini, adattati poi alle nuove circostanze ed esigenze dal cesarismo napoleonico, e, in parte, mantenuti anche dalle forze della restaurazione.

Invece, per coloro che ritengono l’Unità come fatto eminentemente politico e non ideologico, il moto risorgimentale ha radici e protagonisti autoctoni: è questa l’interpretazione moderata, nazionalista e sabauda18. Queste ultime radici indubbiamente vi furono e possono essere ascritte ad uno dei termini in questione, l’Unità. L’unificazione della Penisola fu una delle due motivazioni che hanno portato alla nascita dell’Italia moderna ed è una caratteristica che non è conseguenza diretta dell’ideologia che ha alimentato gli avvenimenti francesi del 1789.

L’Unità, tuttavia, poteva essere realizzata in modi diversi, ad esempio secondo lo schema federalistico, che prevedeva la conservazione delle legittime monarchie, proposto da Gianfrancesco Galeani Napione (1748-1830), dal movimento neo-guelfo dell'abate Vincenzo Gioberti (1801-1852), ma anche da Cesare Balbo (1789-1953), che inizialmente era "unitario" sotto la guida dei Savoia, e dal beato Antonio Rosmini-Serbati (1797-1855); oppure, tralasciando la forma repubblicana centralista e radicale di Giuseppe Mazzini (1805-1872), il processo unitario poteva seguire la prospettiva federale repubblicana, di Carlo Cattaneo (1801-1869) — che, in un primo tempo, non prevedeva l’unità politica della Penisola, bensì un patto federale che inglobasse il Nord all’Austria, sposando solo dopo i moti del 1848 la causa di un federalismo nazionale — e di Giuseppe Ferrari (1811-1876). Al contrario l’Unità venne realizzata in funzione degli interessi geo-politici del Regno di Sardegna, secondo la prospettiva ideologica, liberale e fortemente nazionalistica, ereditata dalla Rivoluzione francese e, in particolare, dal ventennio della dominazione napoleonica in Italia (1796-1815), quando venne attuata una trasformazione delle strutture politiche e degli assetti culturali, eversiva del plurisecolare passato della popolazione italiana19.

Per il sociologo Massimo Introvigne, la modernizzazione italiana, nelle sue dimensioni politiche, economiche, culturali, si è svolta sotto l’influenza del partito “anti-italiano”, cioè di élite secondo le quali l’ethos cattolico era la causa della presunta arretratezza culturale, civile ed economica dell’Italia; per costoro il Paese scontava il fatto di non aver aderito alla rivoluzione protestante e di essere rimasto fedele al Papato e, conseguentemente, di essere stato permeato della cultura controriformista. Queste élite volevano non tanto “fare” gli italiani, quanto piuttosto fare un’Italia “ideale” contro gli italiani “reali”20. E poiché tale ethos era radicato nei localismi e nelle peculiarità regionali, per consolidare le deboli basi dello Stato unitario, si diede corso ad una vigorosa azione anti-municipalistica ed anti-federativa, contro ogni forma di decentramento.

Il Risorgimento dell’Italia, quello che avvenne nella realtà, si tradusse invece nell’esautorazione delle classi politiche pre-unitarie, nella mortificazione delle antiche capitali, nello sconvolgimento delle strutture economico-sociali. Il tessuto connettivo della «nazione spontanea»21 venne lacerato, in conseguenza della demolizione delle antiche istituzioni e delle consolidate forme di amministrazione del territorio22. In questo modo, nel tentativo di dar corpo ad una nazione ideale, vennero distrutte le nazionalità reali23. A fronte di tale opera di devastazione istituzionale-economico-sociale, venne creato uno Stato fortemente centralizzato, caratterizzato da uniformità amministrativa e fiscale e da una esasperata secolarizzazione. La legislazione antireligiosa dei primi governi del Regno d’Italia24 — già, per molti aspetti, attuata dalla Repubblica Romana (1848-1849)25, dal Regno di Sardegna, con le leggi di Giuseppe Siccardi (1802-1857)26 e del governo del “connubio”, costituito dal centro di Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861) e dal centrosinistra di Urbano Rattazzi (1808-1873)27 —, portò inevitabilmente ad uno scontro diretto con la Chiesa cattolica, che si oppose al tentativo dell’ideologia risorgimentale di allontanare il Paese dalle sue radici cristiane.

4. Il lascito del Risorgimento: le tre “questioni”

Si apriva così una serie di questioni, meglio di ferite, che la comunità nazionale non ha ancora risolto centocinquant’anni dopo la sua unificazione politica.



4.1- La "questione cattolica"

Nacque allora — certamente almeno a partire dal 1848, dopo il rifiuto di Papa Pio IX di muovere guerra a fianco dei piemontesi contro l’Impero austriaco — una "questione cattolica", contesa ben più ampia di quella che verrà chiamata "questione romana", nata a seguito della conquista militare di Roma nel 1870 da parte dell’esercito italiano. Questa è stata risolta compiutamente dai Patti Lateranensi del 1929, che hanno sanato gli aspetti giuridici e politici, accettando l’esistenza di un minuscolo, ma reale, Stato vaticano e regolamentando, con il Concordato, i rapporti nelle materie miste fra Stato italiano e Santa Sede.

La "questione cattolica" è più ampia, perché affonda nel corpo sociale italiano, inerendo al ruolo ed agli spazi che i cattolici possono avere nella società e nello Stato. Essa “questione”, nel nuovo Stato unitario, si esplicò in una completa separazione fra Stato e Chiesa28, nella scristianizzazione della società, soprattutto della sua sfera pubblica, e nell’emarginazione o nel ridimensionamento della presenza organizzata dei cattolici: il “Paese reale”, cioè il mondo cattolico italiano, nel primo decennio seguito all’unificazione, ma ancor di più dopo il 1870 e fino al patto Gentiloni29, non ebbe voce nel “Paese legale”, che, al momento della proclamazione del Regno d’Italia, rappresentava circa il 2% della popolazione.

L’eclissi politica dei cattolici è comunque continuata anche durante il fascismo, al quale, di fatto, essi delegarono la rappresentanza politica, nonostante i ripetuti contrasti del regime fascista con la Santa Sede, specie in tema di educazione della gioventù. Dopo il secondo conflitto mondiale, il cattolicesimo venne indubbiamente rispettato; tuttavia, nonostante l’epocale vittoria cattolica alle elezioni politiche del 18 aprile 1948, esso non fu mai effettivamente ripreso dalla Democrazia Cristiana come riconosciuto fondamento della nazione italiana. Gli intellettuali, che erano l’espressione del mondo cattolico, non fecero propria la polemica antirisorgimentale, che caratterizzò il magistero italiano dei pontefici, a partire dal beato Papa Pio IX, e che era stata l’anima di quel movimento cattolico intransigente e che lo storico liberale Giovanni Spadolini (1925-1994) ha definito come ”opposizione cattolica”30. Così il Risorgimento non fu più considerato un momento fondamentale del processo di scristianizzazione della nazione.



4.2 - La "questione meridionale"

Essa è stata originata dalla guerra civile che sconvolse il Mezzogiorno nel decennio 1860-1870 e che costò migliaia e migliaia di morti. Oltre ai lutti, il conflitto lasciò in eredità un seguito di contrasti etnico-classisti, un’insofferenza popolare verso lo Stato, data dal senso di persecuzione ed esclusione che afflisse la popolazione; conseguentemente, questa ricercò la protezione delle organizzazioni criminali di tipo mafioso31.

Alla conquista seguì la spoliazione economica, giustificata dai costi dell’unificazione e dalla gestione finanziaria della dittatura garibaldina al Sud. Venne istituito il Gran Libro del debito pubblico, in cui furono iscritti i debiti degli antichi Stati, oltre la metà dei quali ascrivibili al Regno di Sardegna; pertanto le spese sostenute per l’invasione furono affibbiate alle popolazioni dette terre conquistate32. Il carico fiscale lievitò enormemente, a causa di una nuova legislazione tributaria che applicò le tariffe doganali del Regno di Sardegna. Le industrie meridionali persero anche le commesse statali che furono assegnate a quelle settentrionali, rompendo gli equilibri dell’economia del Mezzogiorno con esiti disastrosi. Non marginale fu l’intensificazione del flusso emigratorio verso le Americhe; tra il 1876 e il 1914 ben 5.400.000 meridionali lasciarono il proprio territorio alla ricerca di maggior fortuna33.



4.3 - La "questione federalista"

È questione attualissima, retaggio della forma dello Stato che i primi governi italiani adottarono: una forma fortemente centralizzata sulla base del modello francese, quando invece il "vestito" politico adatto al Paese doveva palesemente essere di carattere federale, nel rispetto delle profonde diversità delle popolazioni, delle loro varie storie e dei rispettivi governi pre-unitari34. Problemi che l’istituzione delle regioni nel 1970 non ha affatto risolto, visto l’impronta verticistica (è stato decentrato il centralismo!), burocratica.



5. La verità storica fondamento dell’identità e dell’unità

Allora, cosa manca alla ricostruzione di una memoria nazionale condivisa? Quali aspetti occorre evidenziare al fine della definizione di una memoria almeno accettata? Serve recuperare la verità storica, cioè presentare la verità sulla storia d’Italia, senza mettere in discussione un’unità che esiste da centocinquant’anni anni, ma evidenziando ciò che è stato taciuto, nascosto o sminuito. La nostra storia va studiata, ma non con i paraocchi della ideologia risorgimentale.

La prima operazione culturalmente seria è quella di liberarci da narrazioni che non appartengono all’ethos italiano. La vicenda politica e culturale degli ultimi due presidenti della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano che hanno notevolmente contribuito alla diffusione ed al rilancio del mito risorgimentale, comunque riconosciuti e rispettati per l’alta funzione esercitata, non è rappresentativa della vera identità italiana. L’azionismo e il comunismo sono, dal punto di vista sociale e politico, la negazione dei riferimenti valoriali propri della tradizione culturale e civile italiana e alla base della nostra convivenza. Nemmeno il cosiddetto “patriottismo costituzionale” esprime l’identità della nostra nazione: esso esalta la costituzione come un totem immodificabile, ma è pronto, sui temi per un cattolico non negoziabili, a forzare la lettura della costituzione. L’identità italiana deve avere come riferimento la condivisione dei “valori” espressi dalla nostra storia.

Attuare questa ricerca della verità storica favorirà la riscoperta di una identità nazionale: un’identità italiana svincolata da ogni ideologia, che può accomunare laici e cattolici, perché centrata sui valori espressi dalla storia del Paese, sulle profonde radici del medesimo che non è nato nel 1861. L’Italia è nata nell’Alto Medioevo, è frutto dell’incontro della cultura classica e del Cristianesimo, che in Roma ha posto la sede del proprio capo spirituale; la sua identità si è irrobustita nella resistenza all’espansionismo islamico e al protestantesimo, si è rafforzata durante la Controriforma e si è manifestata nel periodo della grande Insorgenza, dal 1792 al 1814, antirivoluzionaria e antinapoleonica, e nelle forme oppositive al processo di scristianizzazione e di centralizzazione del potere attuato durante il Risorgimento.





[1] Per movimento neoguelfo, il Papato doveva essere alla guida di un processo unitario federale; Pio IX (1846-1878) si fece promotore di una lega doganale fra gli Stati italiani sul modello di quella tedesca (deutscher Zollverein). Circa la distinzione tra Unità e Risorgimento, cfr. Francesco Pappalardo, L’Unità d’Italia e il Risorgimento, D’Ettoris Editori, Crotone 2010, p. 9; Idem, Il Risorgimento, i Quaderni del Timone, Edizioni Art, Novara 2010, p. 7; Giovanni Cantoni, Conclusioni «Unità sì, Risorgimento no», in Francesco Pappalardo - Oscar Sanguinetti (a cura di), 1861-2011. A centocinquant’anni dall’Unità d’Italia. Quale identità?, Cantagalli, Siena 2011, p. 187.

2 Cfr. Massimo Introvigne, Introduzione. Centocinquant’anni dopo: identità cattolica e unità degli italiani, in Francesco Pappalardo - Oscar Sanguinetti (a cura di), op. cit., pp. 5-33; Francesco Pappalardo, L’Unità d’Italia e il Risorgimento, cit., pp. 8-9.

3 Alfredo Mantovano, Presentazione, in Francesco Pappalardo, Il mito di Garibaldi. Una religione civile per una nuova Italia, Sugarco, Milano 2010, p. 7.

4 È sempre Alfredo Mantovano a richiamare, a p. 7 del testo di cui alla nota 3, il senso di appartenenza alla medesima «comunità di destino» che caratterizza la popolazione italiana; concetto, questo, introdotto dal saggista e polemista francese Gustave Thibon (1903-2001), in Idem, Ritorno al reale. Prime e seconde diagnosi in tema di fisiologia sociale, con Prefazione di Gabriel Marcel (1889-1973), a cura e con Considerazioni introduttive di Marco Respinti , trad. it., Effedieffe, Milano 1998, pp. 123-145.

5 Lettera a quotidiano la Repubblica del 19 febbraio 2011.

6 Discorso del 15.04. 2010 ai componenti della Consulta per l'emissione di Carte valori postali e la filatelia e della Commissione per lo studio e l'elaborazione delle carte valori postali, in occasione della presentazione dei quattro francobolli celebrativi del 150° anniversario della Spedizione dei Mille.

7 Discorso del 15.11.2010, in occasione della presentazione, da parte dell’Associazione Italiadecide, del rapporto “L’Italia che c’è”, presso la Sala della Lupa di Palazzo Montecitorio.

8 Discorso di insediamento alla presidenza della Camera dei deputati il 9 maggio 1996.

9 Cfr. Ernesto Galli Della Loggia, L’identità italiana, Il Mulino, Bologna 1998, pp. 176 e Idem, La morte della patria. La crisi dell’idea di nazione, Laterza, Bari 2003, pp. 145.

10 Cfr. Corriere della sera del 13 febbraio 2011.

11 Cfr. la Repubblica del 18 febbraio 2011.

12 Cfr. Avvenire del 1 marzo 2011.

13 Cfr. Maurizio Blondet in Avvenire del 19 agosto 2001.

14 Romano Ugolini, Garibaldi. Genesi di un mito, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1982, p. 13.

15 Mario Isnenghi, Garibaldi fu ferito. Storia e mito di un rivoluzionario disciplinato, Donzelli, Roma 2007, p. 143.

16 Circa questi aspetti («anglico nelle idee, gallico nella lingua», diceva Gioberti riferito a Cavour) e la sua non estraneità al mondo religioso riformato ed alla massoneria, cfr. Francesco Pappalardo, Il mito di Garibaldi. Una religione civile per una nuova Italia, cit., pp. 101-111.

17 Wenzel Anton von Kaunitz (1711-1794), cancelliere dell’imperatrice Maria Teresa e di Giuseppe II, affermava: «Per alzare una buona fabbrica bisogna atterrare la vecchia» (cfr. Franco Valsecchi, Dispotismo illuminato, in AA. VV., Nuove questioni di Storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, vol. I, Marzorati, Milano 1961, p. 190.

18 La politica conciliativa austriaca, seguita al Congresso di Vienna (1814-1815) e ispirata da Clemens Wenzel Lothar di Metternich (1773-1859), in particolare in Lombardia e nel Veneto, manteneva il potere statale nella burocrazia a discapito delle articolazioni sociali, lasciando nella sostanza intatte le strutture amministrative del periodo napoleonico, esautorando la borghesia e la nobiltà dalla gestione del potere; questi ceti si opponevano ad una monarchia amministrativa, burocratica, a volte odiosamente poliziesca, e si riconoscevano nel costituzionalismo, ritenuto maggiormente rappresentativo dei loro interessi. Cfr. Robertino Ghiringhelli - Oscar Sanguinetti, Il cattolicesimo lombardo tra Rivoluzione francese, Impero e Unità, Edizioni Scientifiche Abruzzesi, Pescara 2006.

19 Relativamente agli avvenimenti ed alle insorgenze popolari nei periodo giacobino e napoleonico, cfr. Carlo Zaghi, L'Italia giacobina, Utet Libreria, Torino, 1989; Idem, L’Italia di Napoleone, Utet Libreria, Torino 1989; Francesco Mario Agnoli, Guida introduttiva alle Insorgenze contro-rivoluzionarie in Italia durante il periodo napoleonico (1796-1815), Mimep-Docete, Pessano (Milano), 1996; Massimo Viglione, La "Vandea Italiana", Edizioni FdF, Milano, 1995; Idem, Rivolte dimenticate, Città Nuova Editrice, Roma, 1999; Oscar Sanguinetti (a cura di), Insorgenze antigiacobine in Italia (1796-1799). Saggi per un bicentenario, Istituto per la Storia delle Insorgenze, Milano 2001; Idem, Le insorgenze contro-rivoluzionarie in Lombardia nel primo anno della dominazione napoleonica.1796, Cristianità, Piacenza, 1996,Chiara Continisio (a cura di), Le insorgenze popolari nell’Italia napoleonica. Crisi dell’antico regime e alternative di costruzione del nuovo ordine sociale, Ares, Milano 2001; Giacomo Lumbroso, I moti popolari contro i francesi alla fine del secolo XVIII (1796.1800), Maurizio Minchella Editore, Milano 1997; Francesco Pappalardo - Oscar Sanguinetti, Insorgenti e sanfedisti: dalla parte del popolo. Storie e ragioni delle Insorgenze anti-napoleoniche in Italia, Tekna, Potenza 2000. Per quanto concerne gli aspetti istituzionali e politici dello stesso periodo, cfr. Carlo Ghisalberti, Le costituzioni "giacobine" (1796-1799), Giuffré, Milano, 1957; Melchiorre Roberti, Stato costituzionale e stato autoritario in Italia nel periodo napoleonico, IUS, Rivista di Scienze Giuridiche, Università Cattolica del Sacro Cuore, fasc. gennaio- marzo 1941-XIX- Anno II- Fasc. I; Idem, Milano capitale napoleonica, la formazione di uno stato moderno 1796-1814, Fondazione Treccani degli Alfieri per la storia di Milano, voll. I, II, III, Milano 1946.

20 Massimo Introvigne, op. cit., pp. 5-33

21 L’espressione “nazione spontanea” è stata coniata da Mario Albertini (1919-1997), politologo federalista e si trova in Mario Albertini, Il Risorgimento e l’unità europea, in Idem, Tutti gli scritti, vol. III. 1958-1961, il Mulino, Bologna 2007, p. 784.

22 Cfr. Intervento al Parlamento del giurista Pasquale Stanislao Mancini (1817-1888) dell’8 dicembre 1861, in Atti del Parlamento italiano. Discussioni della Camera dei Deputati. Sessione del 1861, Eredi Botta, Torino 1862, p. 218.

23 Cfr. Giacinto de’ Sivo, I Napolitani al cospetto delle nazioni civili, Borzi, Roma 1967, p. 43.

24 La tensione tra Papato e Regno d’Italia non fu tanto determinata dalle rivendicazioni territoriali, anche se il tema della conquista di Roma da parte dei piemontesi, prima e dopo Porta Pia, ebbe molto peso, quanto piuttosto dalla legislazione fortemente limitante la libertas Ecclesiae, tra cui le leggi vessatorie e persecutorie nei confronti del clero e quelle miranti alla laicizzazione della società. Furono imprigionati molti vescovi, altri esiliati; le perquisizioni e le spoliazioni erano continue. Nel 1865: su 229 sedi vescovili, ben 108 (tra cui quelle di Torino, di Milano e di Bologna) erano senza pastore; 45 vescovi si trovavano in esilio; ad altri 17 nominati dal Papa non era stato permesso di insediarsi in diocesi. Fondamentale in quest’opera di laicizzazione della società fu l’attività dei circoli anticlericali e delle logge massoniche che influenzarono la classe politica, la scuola, la burocrazia, l’esercito e la magistratura; a nulla servì la norma che proibiva alle logge di occuparsi di politica. Due furono le leggi maggiormente persecutorie: quelle del 7 luglio 1866 e del 15 agosto 1867 che rimasero in vigore fino al 1929: esse portarono alla soppressione, cioè privati del riconoscimento giuridico, circa 2.000 ordini, corporazioni e congregazioni religiose, le collegiate (cioè i capitoli formati da ecclesiastici di chiese non cattedrali), i canonicati, le abbazie e i priorati. Non fu permessa, nelle poche congregazioni femminili rimaste, l’ammissione di novizie. La legge del 1867 in particolare privò di personalità giuridica circa 25.000 enti ecclesiastici, le cui proprietà passarono alla borghesia fondiaria (più di un 1.000.000 di ettari furono messi all’asta entro il 1870); nel Mezzogiorno quasi 1.300.000 ettari di demani comunali furono ceduti ai privati. Grandi speculatori fecero affari a danno dei contadini, recidendo così le radici sociali della Chiesa, ed accelerando il processo di secolarizzazione, aprendo la strada al socialismo in vasti strati della popolazione. Su queste tematiche cfr. pure Antonio Socci, La dittatura anticattolica. Il caso don Bosco e l’altra faccia del Risorgimento, Sugarco, Milano 2005.

25 Questi gli aspetti persecutori e anticattolici della Repubblica Romana (1848), guidata da Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi (1819-1890) e Carlo Armellini (1777-1863): vennero confiscate le proprietà ecclesiastiche e dichiarati nulli i voti religiosi; furono rese obbligatorie le celebrazioni dei riti per la repubblica, occupati i conventi, profanate le chiese; imprigionati numerosi sacerdoti, tra i quali san Vincenzo Pallotti (1795-1850), il card. Filippo de Angelis (1792-1877) vescovo di Fermo, il vescovo di Orvieto mons. Giuseppe Maria Vespignani (1800-1865) e il vescovo di Gubbio mons. Giuseppe Pecci (1776-1855); molti preti vennero uccisi nel convento di San Calisto in Trastevere.

26 Con le leggi Siccardi del 1850, furono aboliti il foro ecclesiastico, il diritto d’asilo nelle chiese e nei conventi e limitate di numero le feste religiose; venne pure introdotto l’obbligo di chiedere allo Stato, da parte degli enti morali ed ecclesiastici, l'autorizzazione prima di procedere ad acquisti o di accettare donazioni.

27 Il governo del “connubio” attuò un programma ancora più radicale; furono arrestati l’arcivescovo di Torino, mons. Luigi Fransoni (1789-1862) e l’arcivescovo di Sassari, mons. Alessandro Domenico Varesino (1798-1864); fu espulso dal territorio del Regno l’arcivescovo di Cagliari, mons. Giovanni Emanuele Morongiu Nurra (1794-1866); ridotte le pene per il reato di vilipendio alla religione, si introdussero sanzioni nei confronti dei sacerdoti che nell’esercizio del loro ministero avessero criticato le leggi dello Stato; cessò l’erogazione dei contributi statali alle spese per il culto. La legge 29 maggio 1855 soppresse le comunità religiose che non avevano lo scopo di predicazione, di educazione o di assistenza: persero la personalità giuridica gli enti non utili allo Stato, 34 ordini su 56, e furono chiuse 335 case su 604. Lo Stato, quindi, decideva quali fossero le istituzioni ecclesiastiche “utili” alla Chiesa o alla società, assicurando più denaro all’erario. Non si trattava, tuttavia, di una questione economica, bensì ideologica. Infatti il governo, nel 1855, respinse la proposta dell’episcopato subalpino, guidato dal vescovo di Casale, senatore, Luigi Nazari di Calabiana (1808-1892), il quale aveva offerto una somma che avrebbe coperto le spese per il culto, purché lo Stato non incamerasse i beni ecclesiastici.

28 Nella sostanza la formula cavouriana “Libera Chiesa in libero Stato” fu sostituita da quella, coniata da Luigi Luzzatti (1841-1927), di «“religioni libere nello Stato sovrano”»; la Chiesa fu libera di esistere e di agire, ma all’interno di una cornice fissata in modo unilaterale dallo Stato sovrano.

29 Vincenzo Ottorino Gentiloni (1865-1916), presidente dell’Unione elettorale cattolica, dal 1909 al 1916, si accordò coi liberali moderati in occasione delle elezioni politiche del 1913: i cattolici avrebbero appoggiato i candidati liberali che si assumevano l’impegno di non promuovere leggi anticattoliche.









30 Cfr. Giovanni Spadolini, L’opposizione cattolica, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1994. Circa le tematiche del movimento cattolico ed i rapporti dello stesso con il nuovo Stato unitario, cfr. anche Marco Invernizzi, L'Unione Elettorale Cattolica Italiana 1906-1919. Un modello di impegno politico unitario dei cattolici, Cristianità, Piacenza 1993; Idem, Il movimento cattolico in Italia dalla fondazione dell'Opera dei Congressi all'inizio della seconda guerra mondiale (1874-1939), Mimep-Docete, Pessano 1995, 2 ed.; Idem, I cattolici contro l'Unità d'Italia? L'Opera dei Congressi (1874-1904), Piemme, Casale Monferrato 2002; Giorgio Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, Editori Riuniti, Roma 1974.

31 L’antecedente storico del ricorso alle organizzazioni malavitose per la difesa dei propri interessi è da ravvisarsi nell’operato del massone Liborio Romano (1793-1867) che, nominato ministro di polizia da Francesco II, affidò alla camorra l’organizzazione della guardia nazionale di Napoli, consegnando la capitale ai delinquenti.

32 Cfr. Gustavo Rinaldi, Il Regno delle Due Sicilie. Tutta la verità, Controccorrente, Napoli 2009, pp. 299-318. A pagina 361 del volume, è riportata una significativa valutazione di Giacinto de’ Sivo (1814-1867) storico del periodo, tratta da I Napolitani al cospetto delle nazioni civili: «L’unità per noi è ruina […] Siam costretti a pagare i debiti fatti dal Piemonte appunto per corrompere e comprare il nostro paese. Con la fusione de’ debiti pubblici, noi nove milioni d’anime, con un lieve debito di 550 milioni di lire, ci fondiamo con quattro milioni d’anime ch’hanno l’enorme debito che sopravanza i mille milioni; vale a dire che noi pagheremo quattro volte i nostri debiti. Avezzi alla pace, saremo trascinati a combattere le frequenti guerre europee. E a fare i soldati, lontani di casa, in luoghi nevosi e mortiferi a mille miglia distinti»; nella quarta di copertina dello stesso volume, è riportata una riflessione di Luigi Einaudi (1874-1961): «Sì è vero che noi settentrionali abbiamo contribuito di meno ed abbiamo profittato di più delle spese fatte dallo stato italiano dopo la conquista dell’unità e dell’indipendenza nazionale. Peccammo, è vero, di egoismo quando il settentrione riuscì a cingere di una forte barriera doganale il territorio nazionale e ad assicurare così alle proprie industrie il monopolio del mercato nazionale. Noi riuscimmo così a fare affluire dal sud al nord una enorme quantità di ricchezza, nel momento appunto in cui la chiusura dei mercati esteri, conseguenza della nostra politica protezionista, impoveriva l’agricoltura, unica e progrediente industria del sud» (dal saggio Il buongoverno).

33 Cfr. Gustavo Rinaldi, op. cit., p. 376

34 Il Cavour, il 15 gennaio 1861, scriveva al Governatore della Sicilia: «Noi siamo […] amanti della discentralizzazione in quanto le nostre teorie sullo Stato non comportano la tirannia di una capitale sulle province, né la creazione di un centro artificiale contro cui lotterebbero sempre le tradizioni, le abitudini dell’Italia» E il 13 marzo 1861, Marco Minghetti (1818-1886), ministro degli Interni dell’ultimo governo Cavour, dichiarava: «non vogliamo la centralità francese […] noi dobbiamo evitare accuratamente questo sistema» . Egli voleva la ripartizione di “sei consorzi di province” grosso modo corrispondenti alle realtà politiche preunitarie, in salvaguardia di una certa autonomia, come prevista dalla creazione delle luogotenenze. La Camera respingeva le proposte di Minghetti e il 29 marzo 1865 estendeva a tutto il Regno le leggi del Regno di Sardegna [Cfr. Un tempo da riscrivere: Il risorgimento italiano, a cura dell’Associazione Culturale Identità Europea, Itaca, Castelbolognese (Ra) 2000, p. 30]. Cfr. inoltre Giuseppe Brienza, Unità senza identità. Come il Risorgimento ha schiacciato le differenze fra gli Stati italiani, Solfanelli, Chieti 2010, pp. 28-29: «[…] lo storico dell’Amministrazione Alessandro Taradel (1930-2008) ha dimostrato come “[…] la riorganizzazione dell’amministrazione centrale sarda venne effettuata non secondo lo schema autonomamente elaborato in sede governativa e/o parlamentare, ma letteralmente “copiando” molte delle disposizioni contenute nei decreti leopoldini del 1846”, vale a dire emanati da re Leopoldo I dei Belgi (1831-1865) il 21 novembre 1846, a loro volta ispirati dall’assetto napoleonico (poi progressivamente diluito in Francia) del 1809».

31 L’antecedente storico del ricorso alle organizzazioni malavitose per la difesa dei propri interessi è da ravvisarsi nell’operato del massone Liborio Romano (1793-1867) che, nominato ministro di polizia da Francesco II, affidò alla camorra l’organizzazione della guardia nazionale di Napoli, consegnando la capitale ai delinquenti.

32 Cfr. Gustavo Rinaldi, Il Regno delle Due Sicilie. Tutta la verità, Controccorrente, Napoli 2009, pp. 299-318. A pagina 361 del volume, è riportata una significativa valutazione di Giacinto de’ Sivo (1814-1867) storico del periodo, tratta da I Napolitani al cospetto delle nazioni civili: «L’unità per noi è ruina […] Siam costretti a pagare i debiti fatti dal Piemonte appunto per corrompere e comprare il nostro paese. Con la fusione de’ debiti pubblici, noi nove milioni d’anime, con un lieve debito di 550 milioni di lire, ci fondiamo con quattro milioni d’anime ch’hanno l’enorme debito che sopravanza i mille milioni; vale a dire che noi pagheremo quattro volte i nostri debiti. Avezzi alla pace, saremo trascinati a combattere le frequenti guerre europee. E a fare i soldati, lontani di casa, in luoghi nevosi e mortiferi a mille miglia distinti»; nella quarta di copertina dello stesso volume, è riportata una riflessione di Luigi Einaudi (1874-1961): «Sì è vero che noi settentrionali abbiamo contribuito di meno ed abbiamo profittato di più delle spese fatte dallo stato italiano dopo la conquista dell’unità e dell’indipendenza nazionale. Peccammo, è vero, di egoismo quando il settentrione riuscì a cingere di una forte barriera doganale il territorio nazionale e ad assicurare così alle proprie industrie il monopolio del mercato nazionale. Noi riuscimmo così a fare affluire dal sud al nord una enorme quantità di ricchezza, nel momento appunto in cui la chiusura dei mercati esteri, conseguenza della nostra politica protezionista, impoveriva l’agricoltura, unica e progrediente industria del sud» (dal saggio Il buongoverno).

33 Cfr. Gustavo Rinaldi, op. cit., p. 376

34 Il Cavour, il 15 gennaio 1861, scriveva al Governatore della Sicilia: «Noi siamo […] amanti della discentralizzazione in quanto le nostre teorie sullo Stato non comportano la tirannia di una capitale sulle province, né la creazione di un centro artificiale contro cui lotterebbero sempre le tradizioni, le abitudini dell’Italia» E il 13 marzo 1861, Marco Minghetti (1818-1886), ministro degli Interni dell’ultimo governo Cavour, dichiarava: «non vogliamo la centralità francese […] noi dobbiamo evitare accuratamente questo sistema» . Egli voleva la ripartizione di “sei consorzi di province” grosso modo corrispondenti alle realtà politiche preunitarie, in salvaguardia di una certa autonomia, come prevista dalla creazione delle luogotenenze. La Camera respingeva le proposte di Minghetti e il 29 marzo 1865 estendeva a tutto il Regno le leggi del Regno di Sardegna [Cfr. Un tempo da riscrivere: Il risorgimento italiano, a cura dell’Associazione Culturale Identità Europea, Itaca, Castelbolognese (Ra) 2000, p. 30]. Cfr. inoltre Giuseppe Brienza, Unità senza identità. Come il Risorgimento ha schiacciato le differenze fra gli Stati italiani, Solfanelli, Chieti 2010, pp. 28-29: «[…] lo storico dell’Amministrazione Alessandro Taradel (1930-2008) ha dimostrato come “[…] la riorganizzazione dell’amministrazione centrale sarda venne effettuata non secondo lo schema autonomamente elaborato in sede governativa e/o parlamentare, ma letteralmente “copiando” molte delle disposizioni contenute nei decreti leopoldini del 1846”, vale a dire emanati da re Leopoldo I dei Belgi (1831-1865) il 21 novembre 1846, a loro volta ispirati dall’assetto napoleonico (poi progressivamente diluito in Francia) del 1809».

giovedì 4 novembre 2010

Comunicato stampa Conferenza "La Procreazione è finita: dalla legge 194 all'aborto-fai-da-te"


venerdì 5 novembre · 21.15 - 23.00

Sala sinodale dell'antico Palazzo dei Vescovi

Piazza del Duomo

Pistoia

Interverranno:Dott Renzo Puccetti Avv. Aldo Ciappi



L'Associazione Sant'Ignazio di Loyola e il Comitato per il Centenario della Nascita di Augusto del Noce, in collaborazione con l'Associazione John Locke, l'Associazione Madonna dell'Umiltà e con Alleanza Cattolica, hanno deciso di organizzare una conferenza sull'aborto e sulle pillole abortive. La decisione nasce dal fatto che questo è il tipico argomento riguardo al quale pensiamo di sapere tutto, ma in realtà le informazioni che abbiamo, essendo disparate, frammentarie e provenienti da un'infinità di fonti diverse e che si contraddicono l'una con l'altra, ci fanno sapere ben poco del problema.Infatti tendiamo sempre a sovrapporre gli aspetti tecnico-scientifici, tecnico-giuridici e etici. Cosicchè tutti pensano di sapere cos'è l'aborto, come viene praticato, come viene regolato dalla legge, quanto viene praticato e, soprattutto, quanto viene maggiormante praticato e da chi dopo la legge 194, cos'è la ru486, quali sono i suoi effetti, qual è la regolamentazione legislativa, quali sono e di chi sono in realtà gli interessi da tutelare.

Parlando con la gente vedo invece che questi aspetti sono per lo più ignorati, con la conseguenza che il giudizio morale che viene dato sulla pratica dell'aborto e della ru486 e sulla loro regolamentazione è compeltamente sfalsato e quindi ideologizzato.La conferenza si propone perciò di chiarire gli aspetti medici e giuridici e di fornire delle statistiche, in modo da dare una corretta informazione del problema, dato che l'aspetto conoscitivo precede sempre quello etico e che una scelta, nella vita privata e nella vita politica, è veramente libera solo se è basata su giuste informazioni.La Conferenza si terrà nella Sala sinodale dell'antico Palazzo dei Vescovi in Piazza del Duomo a Pistoia, gentilmente concessa dalla Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, venerdì 5 novembre alle ore 21,15; interverranno il Dott Renzo Puccetti e l'Avv. Aldo Ciappi di Scienza e Vita - Pisa e Livorno.

lunedì 17 maggio 2010

Del Noce, Vico e l'ateismo. La relazione di Mauro Ronco

La linea Vico-Rosmini come risposta all’ateismo nel pensiero di Augusto Del Noce
Mauro Ronco

1. L’affresco storico.
Non si può comprendere il pensiero filosofico e storico di Augusto Del Noce se non lo si cala all’interno del suo tempo e dei problemi politici che Egli si trovò a vivere con una partecipazione piena e accorata, tanto più intensa quanto più irrimediabile gli appariva lo sgretolamento di ciò che era rimasto del meraviglioso edificio della civiltà cristiana, pur dopo gli sfregi arrecati dalla rivoluzione detta francese e dalla sua versione risorgimentale italiana.
Egli, avendo vissuto la giovinezza e la maturità scientifica nel periodo più acuto del dominio delle ideologie totalitarie, poté constatare passo dopo passo lo stritolamento progressivo delle istituzioni, del costume e dell’etica pubblica ispirata al cristianesimo per opera del totalitarismo nazista e del comunismo. Questi regimi e queste ideologie, pur lottando ferocemente e all’ultimo sangue gli uni contro gli altri, furono sinistramente uniti nel distruggere le vestigia della civiltà cristiana e nell’impedire con la violenza la possibilità di ri-presentazione efficace dell’ideale di vita cristiano.
Augusto Del Noce non fu mai disposto a transigere sui princìpi e mai rinunciò alla idea che soltanto il ritorno alla dottrina politica e sociale cristiana avrebbe consentito la cura delle società malate dell’Occidente, affinché le stesse potessero nuovamente contribuire, come nei secoli della Cristianità, al progresso del mondo intero. Per questo suo inflessibile attaccamento ai princìpi Del Noce fu sempre malvisto dai poteri forti e dagli stessi costantemente emarginato.
Negli anni precedenti all’esplosione della seconda guerra mondiale Egli, influenzato dal pensiero di Jacques Maritain, come la gran parte della gioventù studiosa cattolica del tempo, incerto tra i motivi antimoderni e ultramoderni della sua filosofia e delle sue ricadute politiche, partecipò all’esperienza culturale della «sinistra» cristiana, avvicinandosi alle posizioni rappresentate, nell’ultimo tratto del decennio ’30-‘40’, da Felice Balbo e Franco Rodano. Dopo la guerra, Egli, approfondendo il pensiero di Jacques Maritain, si staccò vigorosamente dalla «sinistra» cristiana e ne divenne il più acuto e intransigente critico, guadagnandosi così il disprezzo e l’emarginazione da parte degli eredi, culturali e politici, di quella «sinistra». Costoro, sia all’esterno che all’interno della Democrazia Cristiana, sconfitti dall’evento prodigioso del 18 aprile 1948, che, sotto l’impulso spirituale del Pontefice Pio XII, di venerata memoria, e la protezione della Vergine Santissima, aveva reso impossibile il patto di governo comune tra le forze cattoliche e quelle comuniste, operarono uniti sul piano politico per la secolarizzazione della società. A livello culturale si industriarono di trovare le ragioni di incontro tra la fede cristiana e il pensiero ateistico moderno, soprattutto nell’espressione logicamente definitiva del marxismo. E’ impossibile in questa sede esaminare il percorso sopraccennato. Basti qui dire che questo obiettivo, sul piano politico, filosofico e teologico, fu portato fino alle estreme conseguenze per tutto il corso della cosiddetta prima repubblica, fino alla caduta del muro di Berlino nel 1989.
Nell’arengo politico i cattolici che non avevano reciso completamente il legame con la dottrina sociale della Chiesa – gli eredi di don Luigi Sturzo, tra cui, in particolare, Alcide De Gasperi, con una parte della Democrazia Cristiana – furono via via esclusi dai posti di comando del partito, con sempre maggiore determinazione a partire dalla morte dello statista trentino nel 1954. I Comitati civici guidati dal Prof. Luigi Gedda, protagonisti della vittoria del 1948, che costituivano il canale di trasmissione tra la cultura cristiana e la politica attiva, furono emarginati. Negli organi dirigenti del partito gli eredi di don Sturzo, pur maggioritari nei gruppi parlamentari, divennero una ridotta minoranza.

2. Le condizioni di minorità della cultura cattolica nel lungo dopoguerra italiano.
La progressiva erosione della dottrina sociale della Chiesa fu contrassegnata dalla sua sostituzione con l’ideologia detta «democratica». Dietro l’enfatico entusiasmo per la Costituzione repubblicana del 1948, questa ideologia, facendo proprio il giudizio positivo circa la ineluttabilità storica del materialismo storico, aderiva al processo di secolarizzazione della vita etica, politica e sociale. L’ideologia «democratica», se trovò pochi e deboli oppositori sul fronte politico, non fu contrastata adeguatamente da alcuno sul piano della cultura politica. Non vanno dimenticate, certamente, le grandi figure dei teologi e dei filosofi che continuarono l’elaborazione e l’approfondimento del pensiero cristiano, in opposizione costruttiva all’ateismo moderno – si pensi, tra tutti, alle gigantesche figure di Cornelio Fabro e di Michele Federico Sciacca. Questi Autori mostrarono le contraddizioni insanabili da cui erano affette le varie filosofie dell’immanenza ed additarono l’abisso nichilistico in cui esse facevano precipitare la ragione umana. Sul piano della cultura politica, però, queste grandi personalità non potevano essere udite. La ricchezza del loro insegnamento avrebbe fruttificato in tempi più lunghi. Né potevano essere immediatamente efficaci sul piano macrosociale e politico le voci di chi, riscoprendo l’inesauribile novità del messaggio cristiano e la fonte perenne di metafisica, anche sociale, che in tale messaggio si radica, avevano iniziato una seminagione tra i giovani destinata a germogliare più tardi: mi riferisco in particolare all’opera di don Luigi Giussani, che dava vita in quegli anni a Comunione e Liberazione, e di Giovanni Cantoni, che, già a partire dai primi anni ’60, estraeva dalla reazione giovanile contro il comunismo i futuri semi di Alleanza Cattolica. Queste voci si sarebbero manifestate socialmente più tardi e la loro levatrice storica sarebbe stata l’opera del Pontefice Giovanni Paolo II, il Grande.
Nel periodo oscuro degli anni ’50 e ’60 si eresse con autorità sul piano della cultura politica soltanto la figura di Augusto del Noce, che seppe diagnosticare filosoficamente le ragioni della condizione di minorità del pensiero di ispirazione cristiana di fronte all’immanentismo, rappresentato dalla linea che, preso l’inizio con Cartesio, si compendia tipologicamente nei nomi di Kant, Hegel e Marx. Egli seppe anche proporre alcuni princìpi essenziali per la rimessa in verticale della filosofia cristiana. Nel compiere quest’opera Del Noce rimase isolato: gli furono avversari implacabili tanto i comunisti cristiani, alla cui testa era Franco Rodano, divenuto vero maître à penser dei vertici del Partito Comunista Italiano, quanto i potentissimi eredi dell’azionismo, alla cui guida fu Norberto Bobbio, che paventavano con orrore la riproposizione di un modo filosofico di pensare che mantenesse aperto per la religione uno spazio pubblico e sociale, quanto i democratico-cristiani, attratti dal carisma sinistro di Giuseppe Dossetti, ormai completamente asserviti, soprattutto dopo l’ «apertura a sinistra» del 1964 e gli esiti mediatici ed ecclesiatici del Concilio Ecumenico Vaticano II, all’idea che il processo di secolarizzazione fosse non soltanto ineluttabile, ma altresì fosse un bene meritevole di essere perseguito. Da tutti costoro scaturì il più bieco ostracismo nei confronti di coloro che non si erano adeguati al pensiero unico ateistico e, in particolare, di Augusto Del Noce.

3. Il momento pratico dell’ateismo moderno.
Il fulcro del pensiero del filosofo nato a Pistoia sta nella convinzione che l’ateismo, caratterizzante le filosofie dell’immanenza, sia una perdita irreparabile per la ragione dell’uomo. La rinuncia alla dimensione verticale della ragione; l’oblio delle verità intelligibili; il rifiuto della trascendenza; il disprezzo per la metafisica – con la conseguente avversione ad Agostino e Tommaso, nonché a Platone e Aristotele – non esprimono tanto una offesa alla fede, quanto costituiscono soprattutto uno scacco della ragione. Con questa forte convinzione Del Noce si domandò quale fosse il motivo determinante dell’incontrastato dominio nell’universo culturale successivo alla guerra delle filosofie immanentistiche. Egli fornì al quesito una risposta illuminante: poiché le filosofie dell’immanenza sono perdenti sul piano concettuale – e sfociano in contraddizioni insanabili –, la loro vittoria può realizzarsi soltanto nella prassi, offuscando praticamente il bisogno, oltre che della fede, anche della filosofia. Il loro successo sta nel togliere praticamente il desiderio della verità; nel far scomparire l’istanza religiosa e quella filosofica; nel censurare le domande essenziali dell’uomo sulla sua origine e sul suo destino. Il marxismo, come filosofia della prassi che prescrive ai filosofi non di conoscere come è fatto il mondo, bensì di impegnarsi a cambiarlo, è, da questo punto di vista, il punto di arrivo delle filosofie immanentistiche. Del Noce comprese l’indissolubile congiunzione tra comunismo e dissoluzione etica del costume, anticipando con intelligente intuizione il dissolvimento del Partito Comunista nel partito radicale di massa, avvenuto dopo l’ ’89. E ciò non soltanto per la negazione della stessa idea di verità e di bene, in conseguenza del materialismo dialettico, che connota intrinsecamente il marxismo, ma anche per l’esigenza di comprimere l’aspirazione alla trascendenza attraverso la pratica dell’immoralità. Nel capitolo conclusivo de “Il problema dell’ateismo”, comparso nel 1964, che raccoglie e rielabora anche scritti degli anni precedenti, Del Noce ricorda che in Marx l’unica via per colpire la religione è quella di sopprimerne effettivamente le radici: “cioè non la via metafisica, e neppure quella storica o scientifica, ma la via politica: il che, tra l’altro, è a piena conferma della mia tesi sulla priorità del momento politico nell’ateismo” (p. 352). Da qui la tesi di Del Noce: “La rivoluzione che porta al comunismo non può essere realizzata che attraverso un’etica che ha il suo fondamento in una concezione dell’uomo assolutamente ateizzata e di cui d’altra parte l’adozione si impone come necessaria, perché l’alternativa è pensata come la barbarie radicale. Solo in questo senso mi pare si possa dire che la realizzazione del comunismo debba coincidere con la scomparsa del problema di Dio” (p. 352).

4. La fragilità delle risposte filosofiche all’ateismo pratico.
La tesi di Del Noce si articola in due momenti distinti. Il primo non è originale: il comunismo si può affermare soltanto attraverso la pratica di un’etica ateistica che cancelli il ricordo del problema di Dio. Il secondo aspetto è, invero, originale: l’etica materialistica deve imporsi perché, nel pensiero dei comunisti e di coloro che ne sono divenuti «compagni di strada», la sua alternativa non può non essere pensata come la barbarie radicale. L’acutezza del Maestro ha qui colto la radice dell’egemonia culturale del marxismo nell’Italia del secondo dopoguerra. Nel pensiero di Franco Rodano e di Giuseppe Dossetti tutte le letture filosofiche della modernità che hanno contrastato il marxismo sono sfociate nel fornire un sostegno o un contributo ai fascismi: ciò vale non soltanto per la linea idealistica più coerente, rappresentata dall’attualismo di Giovanni Gentile, ma anche per il neotomismo e per le varie forme dell’esistenzialismo spiritualista. Ma i fascismi, ricondotti dai Rodano e dai Dossetti, alla scuola di Antonio Gramsci di Palmiro Togliatti, a categoria unitaria ricomprendente tutte le filosofie estranee alla linea immanentistica inverata dal marxismo, hanno rivelato incontestabilmente la loro natura barbarica. Dunque, l’unica etica che contiene in sé gli anticorpi idonei a contrastare i fascismi è quella comunista. Questa la ragione per cui, nell’ideologia matura dei cattolici che hanno inteso il materialismo storico come ineluttabile positivo esito storico della modernità, l’adesione alla rivoluzione, nella forma ugualitaria proposta dal comunismo, si appalesa non come un contingente compromesso storico, bensì come necessaria sul piano sia etico che politico.
Del Noce esamina a fondo questa tesi, ammettendone la forza. Egli contraddice anzitutto la tesi comunista, azionista e cattolico-progressista sulla natura dei fascismi. Questa tesi è gravemente inaccurata sul piano filologico, nonché ideologicamente maliziosa. Del Noce non avrebbe mancato di approfondire questo problema, differenziando con precisione i vari fascismi tra loro e mettendone in luce le diverse fonti e le radicali divergenze, in specie rilevabili tra nazionalsocialismo e fascismo italiano. Inoltre, Del Noce non avrebbe mancato di chiarire che, se un elemento comune ai vari fascismi sussiste, questo consiste nell’accettazione modernista del relativismo etico applicato in principal modo alla teoria e alla prassi politica.
Del Noce, poi, afferma la necessaria soccombenza sia del liberalismo crociano sia del neotomismo espresso da Jacques Maritain rispetto al marxismo, per la loro debolezza intrinseca. Per Del Noce vanamente sia Croce, in campo laicistico, sia Maritain, in quello cattolico, hanno tentato l’oltrepassamento del marxismo (p. 356). Quanto a Croce, Del Noce pone l’accento sul fatto che per il filosofo liberale la riaffermazione del liberalismo dopo il marxismo dovrebbe presentarsi dissociata dal liberismo. Ma se accadesse questo il liberalismo finirebbe per identificarsi col conservatorismo, e, così amputato, verrebbe messo in crisi l’immanentismo che ne è alla base. Inoltre, la critica decisiva del marxismo alla società liberale non consentirebbe il ritorno alle filosofie inveratesi nel marxismo: dunque, l’oltrepassamento del marxismo dovrebbe “coincidere con la riscoperta di una linea di pensiero in cui Vico figura come iniziatore” (p. 358). Se si pensa all’importanza dell’incontro di Croce con Vico e all’interpretazione immanentistica che il filosofo napoletano ne ha dato nell’opera giovanile del 1911, si comprende come Del Noce suggerisca una riforma radicale del liberalismo crociano, al fine di liberarlo della soccombenza rispetto al marxismo: invece di leggere Vico alla luce degli idealisti tedeschi, occorrerebbe leggere l’anelito per i valori tradizionali di Croce (il “non possiamo non dirci cristiani”) secondo la correzione ricavabile dal pensiero di Giambattista Vico.
Quanto a Maritain, Del Noce coglie due fondamentali aporie nel suo pensiero. La prima consiste nel rovesciamento dell’antimoderno (Primauté du spirituel – 1927) nell’ultramoderno, che costituisce la parabola del suo sviluppo filosofico. La seconda consiste nella valorizzazione perfettistica del processo della modernità, correlativa al giudizio di decadenza, rifiutato dal secondo Maritain, inerente allo schema antimoderno. La democrazia diventò così, in Humanisme intégral, non più una possibile forma di governo, ma la forma migliore di Stato, come esito perfettistico di un processo positivo di sviluppo. L’aspetto perfettistico, che Del Noce vede presente nel Maritain ultramoderno come esattamente correlativo al giudizio di regresso dalla cristianità storica alla modernità, spiega la debolezza concettuale di Maritain e il necessario superamento del suo umanesimo democratico per opera della democrazia ugualitaria rappresentata dal marxismo.
V’è, poi, secondo Del Noce, una ulteriore ragione di debolezza del maritainismo, più grave della prima. Maritain inscrive il suo pensiero all’interno del neotomismo, che si costruisce avendo come avversario, entro le filosofie cristiane, l’ontologismo (p. 319). Nel quadro neotomista “la metafisica cristiana dell’età barocca, nella forma cartesiana, deve apparirgli come una pura decadenza e non come una risposta, sia pure inadeguata, a problemi nuovi (appunto, al sorgere all’ateismo) che S. Tommaso aveva ignorato, e ciò semplicemente perché ogni filosofo non può pensare che in una determinata situazione storica e contro determinati avversari” (p. 319).
Possono così cogliersi i due filoni cruciali del pensiero di Del Noce. Il primo, sul piano filosofico, consiste nell’insinuare elementi di discontinuità e di criticità nell’interpretazione, tipica del neo-tomismo, della filosofia moderna come un processo continuo di radicalizzazione dell’istanza soggettivistica in gnoseologia, di quella razionalistica in metafisica e di quella relativistica in etica. Del Noce non nega certamente che questi elementi siano dominanti e che si rivelino appieno nel trionfo dell’idealismo tedesco e nel suo rovesciamento marxista. Cerca, però, di rintracciare negli Autori moderni, a partire da Cartesio, quegli elementi che, diversamente orientati, avrebbero portato a esiti diversi e a una adeguata tematizzazione della trascendenza, nella ricerca della verità sul piano metafisico etico e giuridico.
Il secondo filone ha valenza prettamente politica. Del Noce cerca una soluzione in virtù della quale gli eredi del liberalismo, liberati dalle pretese totalizzanti dell’ideologia liberista e della filosofia immanentistica; gli eredi della dottrina sociale della Chiesa, liberati dal mito medievista dell’antimoderno e dal mito perfettista dell’ultramoderno; gli eredi del socialismo democratico, liberati dall’ideologia materialista e dal pensiero dialettico, possano insieme dar vita a una società alla cui base stiano valori oggettivi comuni e non negoziabili ad libitum dalla soggettività di ciascuno.

5. La linea filosofica teistica: in particolare, la rivalutazione di Cartesio.
Prima di passare a qualche considerazione sul significato della prospettiva politica, occorre soffermarsi sulla tesi filosofica. Del Noce, come si è detto, rileva filologicamente le tracce storiche di una linea filosofica che egli chiama teistica, rispetto a quella immanentistica e ateistica. I suoi Autori – si comprende con chiarezza dagli accenni contenuti nei suoi scritti – sono principalmente Giambattista Vico e Antonio Rosmini. Basti considerare che, preannunciando Egli nell’introduzione al volume “Riforma cattolica e filosofia moderna” una trilogia dimostrativa della sua tesi, dichiara di voler dedicare il terso libro a Giambattista Vico. Basti rilevare, soprattutto, il suo continuo riferimento alla filosofia che egli – forse inopportunamente – chiama ontologistica. Non si tratta, a mio sommesso avviso, di un riferimento all’ontologismo filosofico in senso proprio, ma del riferimento all’esigenza filosofica di un duplice recupero sul piano concettuale. Anzitutto di un recupero, come base indispensabile del filosofare, delle evidenze del senso comune. La conoscenza non comincia dal nulla; ma dall’esperienza immediata di verità che sono comuni a ogni uomo, in ogni tempo e in ogni luogo. Senza l’esperienza immediata del mondo, dell’io, della distinzione tra io e mondo; senza l’esperienza della libertà e della responsabilità; senza l’evidenza del trascendimento dell’io rispetto al mondo, il cominciamento del filosofare non sarebbe possibile
In secondo luogo, di un recupero dell’idea che, senza la partecipazione dello spirito divino alla mente umana, anzi all’uomo intero, composto di anima e di corpo, l’uomo non sarebbe in grado di conoscere veramente le verità metafisiche e naturali. Senza la vis veri, partecipata da Dio all’uomo, secondo la terminologia di Vico, l’uomo non conoscerebbe alcunché in modo intelligibile, ma sarebbe assimilabile agli altri esseri animati.
A questi indispensabili recuperi concettuali, Del Noce aggiunge due altri temi. Il primo è l’esigenza di un rapporto della filosofia con la storia. Una filosofia «anistorica», come egli la definisce nel saggio “Il problema Pascal e l’ateismo contemporaneo”, raccolta nel Il problema dell’ateismo, (p. 208), è scarsamente proficua. Il secondo è il tema antiperfettistico, ove il perfettismo è definito, alla sequela di Antonio Rosmini, come l’atteggiamento utopistico che intende realizzare nella città terrena la città eterna. Questi due temi, allo stesso modo dei recuperi concettuali delle evidenze del senso comune e del conformarsi dell’uomo conoscente alle verità oggetto di conoscenza in virtù di una reminiscenza nella mente umana di verità impresse da Dio fin dall’origine, sono sviluppati da Del Noce in una sorta di contro-storia della filosofia moderna, ove egli scorge in filigrana una linea di pensiero non inficiata dal vizio immanentistico e, dunque, non superata dall’idealismo hegeliano e dal suo rovesciamento marxista. In questo quadro cruciale acquista rilievo la rivalutazione della Riforma cattolica e, sul piano filosofico, la lettura di Cartesio in una chiave diversa rispetto a quella di capostipite del soggettivismo moderno e del fautore del dubbio radicale. La base del convincimento di Del Noce si ricava dall’individuazione dell’avversario teoretico della filosofia di Cartesio nel pensiero libertino, come esito ultimo del processo naturalistico rinascimentale (p. 219). Del Noce vede la scaturigine del filosofare di Cartesio nell’esperienza della libertà, ove il dubbio metodico “si manifesta come operazione mirante a rovesciare il dubbio scettico” (p. 219). Prosegue Del Noce: “Nell’affermazione della mia trascendenza al mondo, che la mia capacità di metterlo in dubbio rende manifesta, è la denuncia del dogmatismo naturalistico, sottinteso al dubbio scettico” (p. 219). Il rovesciamento della posizione libertina si sarebbe accompagnata in Cartesio a una concessione esiziale. Al carattere politico del pensiero libertino Cartesio oppose “una separazione netta di filosofia e di religione dalla politica” (p. 220): da qui il giudizio di «filosofia monastica» che Giambattista Vico dette della filosofia di Cartesio. Il punto di partenza «Cartesio» è, dunque, per Del Noce, non necessariamente di tipo soggettivistico e razionalistico: la struttura significativa del suo pensiero sarebbe, nell’accettazione dell’intuizione fondamentale della Riforma Cattolica, di combattere il libertinismo, erede dell’eresia rinascimentale, nonché il cupo pessimismo negatore della libertà, sviluppatosi in ambiente protestante. Certo, Del Noce non nega l’ambiguità essenziale cartesiana, ma sottolinea che “Bontà divina, libertà umana, correlatività tra l’affermazione di Dio e quella dei valori naturali, sono pure i momenti essenziali della filosofia di Cartesio” (p. 232).
La preservazione della libertà umana, di contro alla sua negazione o al suo oblio in ambiente protestante, sarebbe stato il legato prezioso con cui, attraverso la mediazione di Nicole Malebranche, Giambattista Vico avrebbe elaborato la Scienza Nuova, ove libertà umana e Provvidenza divina si incontrano meravigliosamente e la Provvidenza estrae continuamente il bene dalla storia degli uomini, intrisa di azioni buone e di azioni malvagie.

6. La linea filosofica teistica: la filosofia di Vico.
La linea filosofica teistica focalizzata da Del Noce si muove lungo il duplice asse costituito, da un lato, dalla preservazione della libertà umana e dal riconoscimento della bontà di Dio e della sua creazione, che gli uomini hanno sfigurato sin dall’origine e continuano a sfigurare con le loro colpe attuali, ma che rimane fondamentalmente buona, e, da un altro lato, dalla reminiscenza del vero, del bene, del giusto e del bello nella mente dell’uomo, siccome creata buona da Dio. L’opera di Vico si staglia al centro di questo processo di filosofia teistica. In Vico, come sopra detto, la Provvidenza divina non è di ostacolo alla libertà umana; l’uomo è capace di conoscere il vero e di praticare il bene e il giusto e di contemplare il bello per una reminiscenza del vero buono giusto eterno che la creatura ha inscritta nella sua natura, siccome creata a immagine e somiglianza di Dio. Vico, inoltre, non è né decadentista né perfettista; libero quant’altro mai sia dai miti dell’età dell’oro sia dai veleni utopistici, concepisce la storia realisticamente e non ideologicamente, come luogo dello scontro tra coloro che, pur nella fragilità della natura decaduta, mantengono in sé stessi l’impronta divina della vis veri, e coloro che, per la barbarie dei sensi o per la barbarie della riflessione scettica, lasciano che si offuschi in se stessi, sin quasi a cancellarla, l’immagine e la somiglianza di Dio. Vico, però – e per questo aspetto egli è particolarmente caro a Del Noce – svolge la riflessione filosofica partendo dall’uomo calato nella storia; egli, pertanto, che non è perfettista né decadentista, descrive i progressi e i regressi delle civiltà; non minimizza le differenze qualitative delle une rispetto alle altre e trae dalla storia insegnamenti perenni in ordine a ciò che a tutti gli uomini è comune, nonostante le divisioni e i cambiamenti, mettendo in luce la grande verità dell’unità del genere umano. La storia dei popoli è per Vico, accanto e più ancora che la natura, il gran libro in cui si possono riconoscere le verità perenni che costituiscono la traccia nella storia del vero del buono del giusto eterno.
Del Noce lamenta che la linea filosofica teistica, splendidamente rappresentata da Vico, sia stata messa in disparte, ignorata completamente da Hegel e, perciò, non trapassata nella filosofia dell’ ‘800 e del ‘900, tanto che la riproposizione del grandioso affresco del filosofo napoletano venne inscritta da Croce e da Gentile all’interno del quadro idealistico. Questa linea – rileva Del Noce - ignorata dal marxismo, è irriducibile alle filosofie che il marxismo ha preteso di inverare. Questa linea trova un punto alto di espressione in Antonio Rosmini, che unisce il saldo realismo cristiano, fondato sull’esperienza immediata della natura umana decaduta – il peccato originale come rivelazione confermativa di una evidenza che la ragione umana riconosce nella storia – con la ferma convinzione che nell’uomo resta impressa, nonostante il peccato, la traccia indelebile della sua origine da Dio: traccia che rende possibile la conoscenza che Dio è. Del Noce chiama questa linea di pensiero ontologista, anche se riconosce l’improprietà del termine, perché non tanto questo pensiero sviluppa l’argomento ontologico della deduzione dell’esistenza di Dio dall’idea di Dio nell’uomo, quanto, piuttosto, perché insiste sulla reminiscenza di Dio nella coscienza umana, che costituisce l’inizio della conoscenza di Dio e delle realtà intelligibili. Realtà, invece, assolutamente inconoscibili nella linea di pensiero immanentistica, vuoi idealistica vuoi empirista.
Del Noce, che è attratto particolarmente dal rapporto tra filosofia e storia, tra riflessione concettuale e ricadute politico-sociali, apprezza in Rosmini soprattutto quell’attitudine realista, insieme intrisa di attenzione per la storia, che egli chiama «antiperfettismo». Nel suo contrario , il «perfettismo», Rosmini vede “quel sistema che crede possibile il perfetto nelle cose umane, e che sacrifica il bene presente alla immaginata futura perfezione”, a cui è inerente sia la soppressione della libertà, perché altrimenti, secondo l’acuto rilievo di Rosmini “l’ideale raggiunto sarebbe uno stato di perfezione instabile esposto a tutti gli attentati degli individui alieni, per una ragione o per un’altra, da quell’ideale di perfezione”; sia la svalutazione della storia passata e la deificazione del futuro; sia il rifiuto dell’idea del peccato originale; sia la riduzione dell’individuo alle sue relazioni sociali.

7. Il significato storico-politico dell’opera di Del Noce.
Un ultimo rilievo va svolto, come anticipato, con riguardo al significato politico dell’opera di Augusto Del Noce nella particolare temperie storica del secondo dopoguerra italiano, nel periodo che va dal 1945 al 1989, in particolare all’inizio degli anni ’80, quando la prospettiva storico-politica fino ad allora egemone venne rovesciata grazie all’insegnamento e all’azione del Pontefice Giovanni Paolo II, il Grande. L’importanza di Del Noce, invero, a mio sommesso avviso, va ravvisata, più che sul piano della speculazione filosofica, sulla stigmatizzazione critica delle ricadute culturali, politiche e sociali delle filosofie immanentistiche moderne, di cui il marxismo, anche e soprattutto nella versione gramsciana, voleva essere l’ «inveramento». Del Noce mise l’accento del «divieto di fare domande», in cui sfociarono concordanti comunismo, azionismo e progressismo cristiano. Poiché la storia avrebbe rivelato il fallimento dell’antimoderno nel suo farsi sostegno della barbarie fascista, ogni domanda autenticamente filosofica avrebbe dovuto essere censurata. Nell’ottica del sospetto, che caratterizza il pensiero moderno, soprattutto nella linea Marx, Nietsche, Freud, chi avesse riproposto il tema della trascendenza, della conoscenza delle realtà intelligibili e dell’azione eticamente orientata alla luce di princìpi permanenti avrebbe surrettiziamente perseguito lo scopo, consapevolmente o oggettivamente, di risvegliare i fascismi. Di qui la censura nei confronti della filosofia e il «divieto di fare domande» sugli esiti atroci delle filosofie immanentistiche.
Augusto Del Noce riaprì un orizzonte che sembrava definitivamente chiuso. Per Del Noce le filosofie dell’immanenza, come è vero e come è giusto ancora oggi ripetere, avevano dato origine, oltre che al liberalismo e al comunismo, anche ai fascismi. La linea filosofica teistica non era stata coinvolta dai superamenti e dai rovesciamenti dell’immanentismo. A questa linea filosofica Del Noce suggeriva di ritornare, non tanto per elaborare una nuova scolastica pedissequamente destinata a ripetere gli antichi, quanto per riproporre le domande filosofiche sull’origine e sul destino dell’uomo, sull’esistenza di Dio, sull’esistenza di valori permanenti nella storia, sull’etica fondata sul bene e non sull’utile e sul diritto naturale.
In un’epoca oscura Egli fu segno di contraddizione; fiaccola nella notte; promessa dell’alba. Se i suoi giudizi filosofici non sempre sono condivisibili, la sua testimonianza a favore della verità sempre è stata esemplare. Per questo mi è particolarmente grato ricordarne la memoria nel centenario della nascita, raccomandando la sua anima a Dio e raccomandando a Lui di vegliare per il rinnovamento della filosofia cattolica e di pregare per l’instaurazione di una società cristiana a misura di uomo, secondo il piano di Dio.

Mauro Ronco

Massimo Introvigne: Del Noce e Leone XIII

Due centenari s’incontrano

Il 2010 segna il primo centenario della nascita di Augusto Del Noce (1910-1989) e il secondo centenario della nascita di Leone XIII (1810-1903). Li ricordo insieme sia per la coincidenza cronologica, già di per sé molto significativa, sia perché la riflessione di Del Noce su Leone XIII è cruciale per intendere alcuni aspetti del suo pensiero. In particolare, la valutazione del filosofo nato a Pistoia sulle encicliche di papa Gioacchino Pecci definisce sia gli elementi di contiguità sia quelli di differenza di Del Noce rispetto alla scuola cattolica contro-rivoluzionaria, dal cui punto di vista esplicitamente si pone Alleanza Cattolica e mi pongo io in questo contributo, e che nasce come critica alla Rivoluzione francese intendendola però come parte di un processo di progressiva scristianizzazione dell’Europa che né è iniziato né finisce con il 1789.

Se la consapevolezza nel mondo cattolico per il centenario di Del Noce è certamente insufficiente, più grave ancora è lo scarso interesse che circonda la ricorrenza relativa a Leone XIII, nonostante l’esplicito invito di Benedetto XVI a interessarsene con l’annuncio di un viaggio a Carpineto Romano, città natale del suo predecessore, previsto per il 5 settembre 2010. Le ragioni di questo disinteresse sembrano essere sostanzialmente tre. La prima è la riduzione del ricchissimo magistero di Leone XIII a un unico documento, l’enciclica Rerum novarum del 1891, che però, letta al di fuori del contesto complessivo dell’insegnamento di papa Pecci, non può che essere da un lato fraintesa dall’altro celebrata sempre più stancamente. La seconda è lo scarso amore della scuola cattolico-democratica, tuttora influente in tanti ambiti culturali, per Leone XIII, nonostante il riferimento obbligatorio alla Rerum novarum. Leone XIII è infatti anche il papa che ha sottolineato l’eccellenza della civiltà cristiana medievale, la malizia del «diritto nuovo» moderno, l’intransigente opposizione alla massoneria, il riferimento obbligatorio per i cattolici nella filosofia a san Tommaso d’Aquino (1225-1274). La terza è che gli stessi oppositori più conseguenti dei cattolici democratici, gli esponenti della scuola contro-rivoluzionaria, se si sono ampiamente serviti del magistero di Leone XIII di rado hanno veramente amato papa Pecci. Questo atteggiamento appare nel modo più tipico nel maggiore esponente della scuola contro-rivoluzionaria del XX secolo, Plinio Corrêa de Oliveira (1918-1995). Le sue opere sono ricche di citazioni da Leone XIII. Eppure in una conferenza inedita – forse rimasta inedita non a caso, considerata la venerazione che l’autore aveva per il pontificato romano in genere – Corrêa de Oliveira stigmatizza «la vanagloria rispetto alla sua famiglia» (Pecci) di Leone XIII, la paragona a quella di papa Innocenzo III (1160-1216) la quale, secondo una rivelazione privata, avrebbe condannato questo pontefice medievale a «rimanere in purgatorio fino alla fine del mondo», e definisce «un incubo» la condizione dei contro-rivoluzionari sotto il pontificato di Leone XIII che, afferma, «può essere simbolizzato dal ralliement» (Corrêa de Oliveira s.d.).

L’allusione, qui, è al ralliement alla Repubblica voluto nel 1892 da Leone XIII, che con l’enciclica Au milieu des sollicitudes incita i cattolici francesi, nella loro grande maggioranza monarchici, a collaborare lealmente con le istituzioni repubblicane purché siano salvaguardati alcuni princìpi fondamentali in tema, in particolare, di libertà di educazione. La rottura del 1892 è drammatica e divide in Francia anche i cattolici più fedeli al Papa — per esempio, all’interno stesso della scuola contro-rivoluzionaria, René de la Tour du Pin (1834-1924) rifiuta il ralliement mentre Albert de Mun (1841-1914) lo accetta —, spacca le famiglie e costituisce un passaggio traumatico senza il quale non si spiegano tutte le traversie seguenti del mondo cattolico conservatore e tradizionalista francese, fino alla vicenda di monsignor Marcel Lefebvre (1905-1991). Il ralliement ha certo conseguenze negative sul piano storico e politico. Contrariamente alle attese di Leone XIII, non modera la Repubblica, che anzi accelera la deriva laicista e anticlericale fino agli eccessi fanatici del presidente del Consiglio Émile Combes (1835-1921), mentre all’interno della Chiesa alcuni cattolici rallié passano dall’accettazione del sistema repubblicano a quella dei princìpi ispiratori della Rivoluzione francese, determinando così la condanna nel 1910 da parte di san Pio X (1835-1914) del movimento Sillon, fondato da Marc Sangnier (1873-1950).

Non si può tuttavia non considerare che il ralliement è anche figlio di una questione dinastica divenuta intrattabile. Per gran parte dell’Ottocento i contro-rivoluzionari e la Santa Sede avevano sostenuto la branca primogenita dei Borboni di Francia, rappresentata da un contro-rivoluzionario convinto e coerente come Enrico V, conte di Chambord (1820-1883), mentre la branca cadetta degli Orléans era stata il simbolo stesso di una monarchia rivoluzionaria, fredda verso la Chiesa e filo-massonica. La branca primogenita si estingue nel 1883 con la morte di Enrico V senza figli. La grande maggioranza dei monarchici francesi riconosce come nuovi legittimi pretendenti al trono di Francia, senza entusiasmo, gli Orléans. Esistono, certo, i cosiddetti «bianchi di Spagna», monarchici che rifiutano la successione orléanista e ritengono che i legittimi eredi di Enrico V siano i Borbone di Spagna della branca detta «carlista». Benché riescano a produrre opere raffinate che giustificano le loro pretese dal punto di vista del diritto dinastico francese, i «bianchi di Spagna» restano però una piccola minoranza, una «cappella insignificante» (Augé 1995, 156) secondo le parole stesse di uno dei loro maggiori esponenti nel secolo XX, lo storico Guy Augé (1938-1994). La loro corrente diventerà nuovamente significativa, per una serie di circostanze, solo dopo la Seconda guerra mondiale. Così, tra orléanisti in odore di massoneria e «bianchi di Spagna» politicamente irrilevanti, Leone XIII – su cui peraltro è stata pure emessa l’ipotesi secondo cui avrebbe pensato al ralliement già durante la vita del conte di Chambord –, nove anni dopo la morte di Enrico V, conclude che nessuna delle due alternative è praticabile, ricorda la dottrina tradizionale secondo cui la dottrina sociale della Chiesa non è legata di per sé ad alcuna forma di governo e sceglie il ralliement alla Repubblica.

Rimane tuttavia vero che chi considera il ralliement una catastrofe ammette di solito il carattere dottrinalmente impeccabile dell’enciclica Au milieu des sollicitudes – in effetti, per seguire la dottrina sociale della Chiesa non è obbligatorio essere monarchici, né l’enciclica, a differenza dei cattolici democratici del Sillon, insinua che sia obbligatorio non esserlo – e apprezza il magistero di Leone XIII. Al contrario, chi vede il ralliement come un atto dovuto, semmai troppo tardivo, si trova spesso in prima linea fra coloro che eliminano dall’orizzonte culturale dei cattolici contemporanei il magistero di papa Pecci, di solito attraverso la strategia che consiste nel ridurlo alla sola Rerum novarum. In questo panorama, dove si situa Del Noce?


L’apprezzamento di Del Noce per Leone XIII

Del Noce incontra la centralità di Leone XIII attraverso un lunghissimo sodalizio intellettuale con Étienne Gilson (1884-1978). Per Del Noce Gilson non è solo uno storico della filosofia, ma un pensatore originale che, ove fosse stato seguito, avrebbe potuto arginare i guai del progressismo cattolico o, per dirla con il filosofo di Pistoia, del «neomodernismo» (Del Noce 2005, 31). Su Gilson, scrive Del Noce, «è opinione diffusa, qui in Italia, che sia uno storico della filosofia, piuttosto che un filosofo; in realtà è un “filosofo attraverso la storia”» (ibid., 33). Qui in verità Del Noce parla anche di se stesso. Anch’egli è considerato da molti un mero storico della filosofia, mentre rivendica di essere un filosofo, e precisamente un «filosofo attraverso la storia». L’importanza di Gilson, per Del Noce, sta nel fatto che «scoprì la verità e la presente attualità del tomismo attraverso l’accertamento di quel che il Dottor Angelico aveva realmente pensato» (ibid.). La questione è di rilievo, e non attiene solo alla storia, precisamente perché ogni forma di resistenza al progressismo per Del Noce deve necessariamente arruolare il tomismo: e deve trattarsi del tomismo di san Tommaso, non di quello manualistico e sterile di tanti neotomisti.

Da questo punto di vista Gilson articola attraverso gli strumenti della storiografia del XX secolo quanto era già stato pensato da qualcuno nel secolo XIX. E quel qualcuno è Leone XIII. Gilson, spiega Del Noce, scopre l’enciclica Aeterni Patris di Leone XIII, che è del 1879, nel 1930, «dato che, per strano che possa parere, non aveva mai prima d’allora letto questa enciclica. Strano, del resto, fino a un certo punto, perché Gilson era di formazione universitaria, della Sorbona, e a quel tempo le encicliche pontificie non solevano esser lette dai filosofi, e spesso neanche dai filosofi cattolici» (ibid., 77: né molto è cambiato nelle università dei giorni nostri). Gilson legge la Aeterni Patris mentre è impegnato nella disputa sulla possibile esistenza di una filosofia cristiana e nella risposta ai laicisti della Sorbona, i quali sostengono che il pensiero cristiano medioevale di cui il docente francese è studioso, per interessante che sia, non appartiene alla filosofia perché è essenzialmente di natura teologica. Grazie al provvidenziale incontro con Leone XIII, Gilson è in grado di rispondere che non si tratta di sottrarre dal pensiero medioevale tutto quanto è strettamente teologico e chiamare il residuo «filosofia cristiana». Al contrario, è cristiana quella filosofia che riconosce il «primato della fede» (Gilson 1960, 248), anzi «il primato della parola di Dio» (ibid., 246), e questo non all’esterno ma all’interno stesso di un pensiero che si presenta come «un progresso a partire da una verità che non è suscettibile di progresso» (ibid., 251). Per Del Noce questa è l’unica possibile filosofia che non rompe l’unità fra fede e ragione, ancorché le distingua e sfugga quindi a ogni accusa di fideismo. La separazione fra filosofia e teologia comporta invece la separazione fra fede e ragione, e quel cedimento al laicismo che nella Chiesa prende la forma del (neo)modernismo.

Del Noce ritiene che il fondamentale risultato raggiunto da Gilson sia possibile solo attraverso una critica di certe angustie e asprezze del neotomismo, il che presuppone un ritorno alla lettera dell’enciclica Aeterni Patris del 1879. Qui infatti si vincola la cultura cattolica a privilegiare una filosofia ad mentem Sancti Thomae Aquinatis. Per Del Noce, «quel ad mentem serve a chiarire l’equivoco delle dispute sulla filosofia cristiana» (Del Noce 2005, 78) e testimonia «la grandezza filosofica di Leone XIII» (ibid.). Leone XIII riporta con san Tommaso nella Chiesa non un insieme di formule ma un metodo: nei termini di Del Noce, in implicita polemica con qualche neotomista, «non tanto una dottrina quanto una maniera di filosofare: e in ogni caso l’aspetto della dottrina si trova in una certa misura posposto a quello della maniera di filosofare» (ibid.).

Gilson nel volume del 1960 Le Philosophe et la théologie, su cui Del Noce spesso ritorna, dà atto a Leone XIII di avere risolto il problema della «filosofia cristiana» cinquant’anni prima che la Sorbona iniziasse a discuterne, e di avere fatto molto di più: papa Pecci ha applicato questo metodo a tutti i principali campi del pensare e dell’agire umano, teorici e pratici. Per comprendere come questo sia avvenuto occorre leggere le encicliche principali di Leone XIII non in ordine cronologico ma nell’ordine che il pontefice stesso ha suggerito nell’enciclica Pervenuti all’anno vigesimo quinto del 19 marzo 1902, pubblicata per il venticinquesimo anniversario della sua elezione a Pontefice. Nell’enciclica il papa ricorda nell’ordine «le [sue] Encicliche sulla filosofia cristiana [Aeterni Patris, 1879], sulla libertà umana [Libertas, 1888], sul matrimonio cristiano [Arcanum Divinae Sapientiae, 1880], sulla setta dei Massoni [Humanum genus, 1884], sui poteri pubblici [Diuturnum, 1881], sulla costituzione cristiana degli Stati [Immortale Dei, 1885], sul socialismo [Quod apostolici muneris, 1878], sulla questione operaia [Rerum novarum, 1891], sui principali doveri dei cittadini cristiani [Sapientiae Christianae, 1890]» (Leone XIII 1902). In un discorso di trent’anni fa Del Noce si chiedeva «perché nessuno in Italia abbia pensato all’edizione delle nove encicliche secondo quell’ordine logico che il Papa aveva fissato» (Del Noce 2005, 77). Nessuno ci ha pensato ancora oggi, e potrebbe essere un modo di dare retta a Benedetto XVI che ha invitato a ricordare Leone XIII in occasione del bicentenario.

Comunque sia, in funzione di questo corpus secondo Gilson – che Del Noce cita e approva più di una volta (ibid., 77; Del Noce 1977, 25) – «Leone XIII prende posto nella storia della Chiesa come il più grande filosofo cristiano del secolo XIX e uno dei più grandi di tutti i tempi» (Gilson 1960, 191). Tutto il Corpus Leonianum è retto dalla Aeterni Patris, perché prima occorre definire il metodo e poi applicarlo: «i programmi di riforma sociale suppongono effettuata questa prima riforma intellettuale, condizione di tutte le altre» (ibid., p. 192). «I vecchi politici cattolici – notava Del Noce nel 1977 – leggevano la Rerum novarum come se fosse isolabile dall’insieme del Corpus Leonianum; coerentemente i nuovi, portando alle conseguenze ultime il difetto di questa linea, hanno del tutto trascurato di leggerla» (Del Noce 1977, 25-26). L’oblio della Rerum novarum è avvenuto «diciamo pure con ragione, perché scissa dal suo fondamento filosofico, dal contesto delle nove encicliche essenziali, e in particolare dall’Aeterni Patris, è destinata a perdere significato» (Del Noce 2005, 77).

Non già che la Rerum novarum, per Del Noce, non sia importante anche nei suoi aspetti strettamente sociali. Al contrario è una «enciclica profetica» (Del Noce 2005, 227) la cui «critica radicale della mentalità utopistica» (ibid., 228) del marxismo e nello stesso tempo di un liberalismo assoluto, secondo cui il mercato risolverà da solo tutti i problemi, appare non – come talora si legge – in ritardo rispetto alla teoria economica dell’epoca, ma al contrario in anticipo e sorprendentemente attuale. Ma, appunto, per cogliere tutte le implicazioni della Rerum novarum è necessario prendere sul serio l’invito della Pervenuti all’anno vigesimo quinto di leggerla dopo altre sette encicliche di Leone XIII, comprese quelle sulla filosofia, sulla massoneria e sul socialismo. Infatti tutta la parte della Rerum novarum sui diritti rispettivi dei datori di lavoro e dei lavoratori, afferma Del Noce, «è legata alla fondamentale tesi dell’antecedenza dell’uomo allo Stato, e questa alla legge naturale e alla metafisica che essa implica» (ibid., 231). «Ora, la rinascita cattolica – incalza ancora il filosofo di Pistoia – deve essere, secondo il pensiero di Leone XIII, inscindibilmente religiosa, filosofica e politica, “politica”, perché richiesta come necessaria per la salvezza anche temporale della società umana, ma questa politica deve appoggiarsi su una filosofia che sia a sua volta preambolo della fede» (Del Noce 1977, 26).

Vi è qui un insegnamento fondamentale di Del Noce, che si ritrova oggi in Benedetto XVI e in particolare nell’enciclica Caritas in veritate del 2009. La dottrina sociale della Chiesa è parte integrante dell’insegnamento della Chiesa Cattolica: ma lo è proprio perché non è solo socio-economica ma anche e anzitutto socio-politica, e perché altro non è che la morale sociale cristiana, la quale presuppone i fondamenti della morale nella verità naturale e rivelata. Il filo che collega Leone XIII, Gilson e Del Noce aiuta a cogliere questa autentica natura della dottrina sociale. Benedetto XVI la ribadisce ancora oggi perché, nonostante la sua reiterata illustrazione da parte del Magistero, non tutti l’hanno compresa. Del Noce ha messo in guardia per tempo sulle conseguenze catastrofiche di questa incomprensione.


Una riserva di Del Noce su Leone XIII

Del Noce, come si vede, è prodigo di elogi su Leone XIII, « il più grande filosofo cristiano del secolo XIX e uno dei più grandi di tutti i tempi» secondo la citata espressione di Gilson che riprende e approva. E tuttavia vi è un aspetto del pensiero di Leone XIII che Del Noce non condivide. Dal mio punto di vista questa critica è particolarmente interessante e, se mi è consentito un accenno autobiografico, mi riporta alla mente numerose conversazioni con il filosofo italiano a Roma e a Savigliano, perché è qui che si situa precisamente la divergenza fra Del Noce e la scuola contro-rivoluzionaria.

Uno dei tanti pensatori oggi ampiamente dimenticati di cui Del Noce si è interessato in modo approfondito è il filosofo idealista francese Léon Brunschvicg (1869-1944). Questo autore, che non aveva simpatia né per la rinascita del tomismo né per la scuola contro-rivoluzionaria, aveva sostenuto che il Corpus Leonianum, a partire da quel suo punto di partenza logico che è la Aeterni Patris, presuppone un giudizio sulla storia che è quello contro-rivoluzionario, mutuato da papa Pecci soprattutto da Joseph de Maistre (1753-1821) e Louis de Bonald (1754-1840) (Brunschvicg 1928, II, 502-503). Secondo Del Noce, Brunschvicg espone la tesi «con una certa tendenziosità, ma con un sostanziale fondo di verità» (Del Noce 1964, 401). È interessante notare che Del Noce discute la questione in un contesto di critica a Jacques Maritain (1882-1973) e al contributo di quest’ultimo al progressismo cattolico. Certo, a proposito di Maritain Del Noce ha invitato a «riconoscere, contro critiche facili, il suo elevatissimo valore, come sistematore filosofico rigoroso di una delle maggiori esperienze spirituali a cavallo fra l’800 e il ‘900, quella di Léon Bloy [1846-1917]» (ibid.). Il filosofo di Pistoia, però, si separa da Maritain precisamente sul punto dell’interpretazione della storia.

Nelle varie fasi che hanno contraddistinto l’itinerario intellettuale di Maritain secondo Del Noce è cambiato – più di una volta – il giudizio sul processo storico del pensiero moderno, ma non è mai cambiata la descrizione di questo processo, che rimane quella contro-rivoluzionaria. Secondo questa descrizione la modernità è un processo di progressiva scristianizzazione che va in modo lineare dal Rinascimento e da Martin Lutero (1483-1546) fino all’illuminismo, alla Rivoluzione francese e al marxismo. Se questo processo sia da combattere – secondo la posizione contro-rivoluzionaria – o se invece occorra cercare qualche forma di composizione e di dialogo è questione su cui Maritain ha cambiato idea più volte. Maritain ha oscillato verso la seconda alternativa, quella del compromesso, in particolare durante e dopo l’epoca dei fascismi, ritenendo – o almeno così ne ricostruisce le motivazioni Del Noce – che una condanna radicale del processo rivoluzionario portasse «inevitabilmente» ad «atteggiamenti pro fascisti»: «non per nulla il principale discepolo recente di Donoso Cortés [Juan, 1809-1853, teorico spagnolo della Contro-Rivoluzione] è stato C.[arl] Schmitt [1888-1985, giurista e filosofo tedesco che aderì a suo tempo al Partito Nazionalsocialista]» (ibid.).

Resta, tuttavia, una visione della storia che secondo Del Noce sarebbe comune alla scuola contro-rivoluzionaria, a Leone XIII, a Maritain ma anche – cambiata di segno quanto al giudizio di valore, cioè intesa come «processo verso la pienezza» anziché «verso la catastrofe» (ibid., 400) – alle prospettive laiciste dominanti. Per Del Noce la visione contro-rivoluzionaria della modernità come processo rivoluzionario lineare che avanza in direzione della scristianizzazione, e dunque «di un processo unitario della filosofia moderna» (ibid.), non solo è in «simmetria» (ibid.) con una lettura laicista uguale e contraria, ma in un certo senso ne dipende in posizione di «subalternità» (ibid., 527). Per usare un’espressione che non è di Del Noce, si potrebbe dire che il filosofo di Pistoia accusa la lettura contro-rivoluzionaria della storia europea – che coinvolge Leone XIII e anche Maritain, non solo nella sua fase giovanile – di regalare la modernità ai laicisti. Dal momento che la modernità appare inevitabilmente vittoriosa, questa lettura preparerebbe dunque la sconfitta dei cattolici. E peggio: una volta presa coscienza della sconfitta, secondo l’idea di «rovesciamento» che è tipica della visione storiografica di Del Noce, la lettura contro-rivoluzionaria della modernità rischierebbe di «rovesciarsi» nel «progressismo». come dimostrerebbero gli itinerari personali di Félicité de Lamennais (1782-1854), per certi versi di Vincenzo Gioberti (1801-1852) e dello stesso Maritain, salvo l’ulteriore passo indietro di quest’ultimo nell’ultimo periodo di vita, come reazione a eccessi progressisti di cui peraltro era egli stesso corresponsabile (ibid.).

Intendiamoci: Del Noce riconosce alla scuola contro-rivoluzionaria il merito di avere colto il carattere profondo di un pensiero che va da Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) a Karl Marx (1818-1883) e oltre. Qui la negazione del peccato originale porta a sostituire la politica alla religione come strumento di salvezza. In questa prospettiva anche Del Noce parla di Rivoluzione con la R maiuscola come processo unitario: «Per varie che possano essere le forme rivoluzionarie, intese in questo senso, – scrive – il loro tratto comune è la correlazione tra l’elevazione della politica a religione e la negazione del soprannaturale. La Rivoluzione, con la maiuscola e senza plurale, è quell’evento unico, doloroso come i travagli del parto (la metafora che torna continuamente nei suoi teorici) che media il passaggio dal regno della necessità a quello della libertà, raffigurato questo, né può essere altrimenti, attraverso la semplice generica negazione delle istituzioni del passato (società senza stato, senza chiese, senza eserciti, senza delitti, senza magistratura, senza polizia…); che genera un avvenire in cui non ci sarà più nulla di simile alla vecchia storia; che, in ciò, è la risoluzione del mistero della storia» (ibid., 362).

È una pagina molto bella, anche dal punto di vista letterario, che conferma la frequentazione dei classici della Contro-Rivoluzione da parte di Del Noce. Dov’è, allora, il dissenso? Il filosofo italiano pensa che le origini della Rivoluzione «con la maiuscola» «siano abbastanza recenti, non antecedenti a Rousseau» (ibid.): quello che viene prima non è tanto rivoluzionario quanto ambiguo. Sullo sfondo c’è qui la polemica con l’opera di Maritain più apprezzata dagli ambienti contro-rivoluzionari, Tre riformatori, il cui sottotitolo – Lutero - Cartesio - Rousseau (Maritain 1967) – indica già l’elemento da cui dissente Del Noce. In verità, il dissenso non riguarda tanto Lutero quanto Cartesio (René Descartes, 1596-1650). Secondo Del Noce quando si applica lo schema contro-rivoluzionario – che poi coincide con quello laicista, salvo come si è accennato il giudizio di valore diametralmente opposto – alla storia della filosofia si arriva fatalmente a quattro conclusioni: «1) l’inizio cartesiano della filosofia moderna; 2) l’opposizione radicale fra Cartesio e Pascal [Blaise, filosofo e teologo francese, 1623-1662]; 3) il fallimento di una nuova scolastica, costruita sull’accordo tra pensiero cristiano e cartesianismo, in Malebranche [Nicolas, C.O., teologo e filosofo francese, 1638-1715]; 4) l’inconsapevolezza, in Vico [Giambattista, filosofo napoletano, 1668-1744], della sua reale posizione storica, per cui la sua filosofia esemplificherebbe, nel modo più perfetto, la sua teoria dell’eterogenesi dei fini» (Del Noce 1964, 402).

Principalmente nel suo libro Il problema dell’ateismo (ibid.), ma anche altrove, Del Noce ha avvertito come suo compito quello di smontare pezzo per pezzo questa visione della filosofia moderna, mantenendone soltanto il primo punto – l’inizio cartesiano –, in quanto anche per il filosofo di Pistoia «ogni filosofia moderna si costituisce nell’orizzonte storico che il cartesianismo ha determinato» (ibid., 405). Tuttavia secondo Del Noce la rappresentazione comune di Cartesio, da manuale scolastico (ma anche da Tre riformatori di Maritain), è ingannevole (Del Noce 1965). In verità nel pensiero del filosofo francese coesistono spunti molto diversi: alcuni, certo, suscettibili di essere continuati in senso anticristiano, altri invece profondamente e sinceramente cristiani. Da questi ultimi parte una versione cristiana della modernità che passa per alcuni aspetti del pensiero di Pascal, la cui contrapposizione a Cartesio è dunque esagerata (e lo è, talora, da Pascal stesso), per Malebranche e per Vico e arriva fino al beato Antonio Rosmini-Serbati (1797-1855).

Del Noce si rende conto che ognuno di questi passaggi è problematico. Affermare per esempio che «Malebranche è il tramite tra il cartesianismo e il pensiero italiano da Vico a Rosmini» (Del Noce 1964, 493) presuppone un’analisi delle critiche di Vico a Cartesio che ne restringa la portata solo ad alcuni aspetti del pensiero cartesiano (Del Noce 1965, 653), e una forte riaffermazione della tesi del «malebranchismo di Vico» (ibid., 652; Del Noce 1964, 481), che di per sé quando Del Noce scriveva non era nuova, ma era stata anche fortemente criticata. E su Pascal il filosofo di Pistoia ammette che «in Pascal il più radicale cartesianismo coincide col più radicale anticartesianismo» (Del Noce 1965, 642). Del Noce stesso ha insegnato che la storia della filosofia è una vera scienza nel senso moderno del termine, le cui acquisizioni possono sempre essere rimesse in discussione da nuovi studi e documenti. Non possiamo certo risolvere qui le complesse questioni legate alla lettura che Del Noce propone di ciascuno dei pensatori che prende in esame.

Possiamo però cercare di capire qual era per Del Noce la posta in gioco. Per lui la linea che va da Rousseau a Marx e oltre fino al 1968 è un processo che non è sbagliato chiamare rivoluzionario, nel senso di una « Rivoluzione, con la maiuscola e senza plurale». Non è neppure sbagliato, a rigore, trovare in Lutero elementi che hanno a che fare con questo processo, i quali coesistono peraltro con aspetti diversi. E tuttavia c’è un altro «processo unitario» (Del Noce 1964, 509) che lega pensatori pure fra loro diversi come il Cartesio cristiano, Pascal, Malebranche, Vico e Rosmini – cui Del Noce è andato progressivamente aggiungendo, attribuendogli un ruolo sempre più importante, il calvinista olandese Arnold Geulincx (1624-1669), in cui peraltro vi è un dubbio «scettico-mistico» (ibid., 492) sulla capacità della ragione di conoscere le cose come veramente sono che apre la strada verso Immanuel Kant (1724-1804). Non vi è tra costoro identità di pensiero ma «identità dell’avversario» (ibid., 508), che è l’ateismo moderno come esito fatale del processo rivoluzionario.

Per Del Noce, dunque, ci sono due modernità: quella rivoluzionaria e quella cristiana. La visione contro-rivoluzionaria della storia accolta da Leone XIII, secondo il filosofo di Pistoia, dimentica o sottovaluta la seconda modernità, la linea che va da Cartesio a Vico e a Rosmini. Così facendo, si espone al rischio di adottare lo schema storico-filosofico dell’avversario laicista e a quello più grave di «rovesciarsi» nel progressismo, una volta constatato che questo avversario ha vinto. Paragonando de Maistre a Vico, Del Noce sottolinea le somiglianze nella critica alla deriva della modernità verso l’ateismo ma afferma che in Vico c’è «non la semplice negazione del moderno, ma l’enucleazione in esso di un momento positivo che non è però quello illuministico e rivoluzionario» (ibid., 528). Rinunciare ad avvalersi di questo «momento positivo» sarebbe il limite della Contro-Rivoluzione e dello stesso Leone XIII.

Dal punto di vista, che è il mio, di un cattolico contro-rivoluzionario che cosa pensare di questa analisi di Del Noce? E – per formulare il quesito in un modo che sarebbe forse piaciuto al filosofo nato a Pistoia – com’è possibile essere contro-rivoluzionari dopo Del Noce? Anzitutto, non si può non riconoscere quanto il confronto intellettuale e le conversazioni con Del Noce abbiano aiutato a crescere la generazione che è alle origini di un’associazione che si dichiara esplicitamente contro-rivoluzionaria come Alleanza Cattolica. Queste conversazioni forse ai più giovani oggi mancano, anche se le provocazioni di Del Noce si ritrovano in autori contemporanei come la storica statunitense di origine tedesca Gertrude Himmelfarb, che in un certo senso va oltre Del Noce distinguendo una linea anticristiana e una compatibile con il cristianesimo anche nello stesso illuminismo, particolarmente in quello britannico (Himmelfarb 2004). Il 12 maggio 2010 a Lisbona Benedetto XVI ha messo in luce il corretto atteggiamento nei confronti di queste provocazioni: «la Chiesa, partendo da una rinnovata consapevolezza della tradizione cattolica, prende sul serio e discerne, trasfigura e supera le critiche che sono alla base delle forze che hanno caratterizzato la modernità, ossia la Riforma e l’Illuminismo. Così da sé stessa [con il Concilio Vaticano II] la Chiesa accoglieva e ricreava il meglio delle istanze della modernità, da un lato superandole e, dall’altro evitando i suoi errori e vicoli senza uscita» (Benedetto XVI 2010).

Del Noce ci ha certamente aiutato a vedere i limiti di qualunque schema che passi da Lutero alla Rivoluzione francese saltando a pié pari le complessità del Seicento e del primo Settecento, così come abbiamo accolto il suo invito a rileggere con simpatia Vico e ad apprezzare le ragioni di Rosmini fino alla sua recente beatificazione, anche se forse abbiamo letto meno Malebranche, per non parlare di Geulincx. Fa parte del legato di Del Noce anche l’attenzione particolare al Seicento e al barocco, sia contro le sue svalutazioni laiciste sia contro le falsificazioni che vorrebbero vedere in quanto nel barocco e perfino in autori come Vico vi è di bello e di grande una paradossale anticipazione dell’illuminismo. Quest’ultima posizione inficia, per esempio, gli elementi d’interpretazione proposti nel catalogo ufficiale delle sei mostre napoletane del 2009-2010 Ritorno al barocco (Sapio, Giannotti e La Marca 2009), mostre splendide dal punto di vista dei pezzi esposti ma discutibili quanto all’interpretazione ideologica proposta al visitatore. Del Noce ci ha appunto insegnato che non si tratta qui di questioni meramente estetiche o turistiche, ma di battaglie culturali di primaria importanza, e questo è oggi tanto più importante in presenza di un pontefice come Benedetto XVI che si autodefinisce «un uomo del barocco» (Benedetto XVI 2008).

Soprattutto, Del Noce con le sue critiche ci ha obbligati a riflettere sulla distinzione fra una nozione cronologica e una ideologica di modernità. Non tutti coloro che sono vissuti e vivono nell’epoca moderna appartengono alla «modernità» come categoria ideologica. Occorre distinguere fra moderno e contemporaneo, e il fatto che Vico termini la sua vita in piena epoca dell’illuminismo non ne fa – benché appunto si vada sostenendo, ma infondatamente, anche il contrario – un illuminista. Ancora, Benedetto XVI invita come si è visto a distinguere nella modernità le domande in parte giuste e le risposte sbagliate, i veri problemi e le false soluzioni, le «istanze», di cui la Chiesa si è fatta carico nella loro parte migliore – ma «superandole» –, e gli «errori e vicoli senza uscita» (Benedetto XVI 2010) in cui la linea prevalente della modernità ha fatto precipitare queste istanze, ultimamente travolgendo e negando quanto nel loro originario momento esigenziale potevano avere di ragionevole e di condivisibile.

Con altrettanta serenità, e senza rinnegare l’affetto e la gratitudine per Del Noce – che da parte sua seguì sempre con grande simpatia e benevolenza le attività di Alleanza Cattolica –, possiamo dire che la sua critica del pensiero contro-rivoluzionario e dell’orizzonte storiografico che fa da sfondo al Corpus di Leone XIII non ci ha indotto ad abbandonare il riferimento tematico alla Contro-Rivoluzione. Per quanto autori di scuola contro-rivoluzionaria abbiano parlato abbastanza male di Cartesio, e talora anche di Pascal e del beato Rosmini, non ci sembra che stia nella critica di questi autori l’essenziale dello schema contro-rivoluzionario. Del resto, l’intreccio fra storia della filosofia e storia della scuola contro-rivoluzionaria è più complesso di quanto possa sembrare a prima vista. Se vi è nella letteratura filosofica di lingua francese un continuatore della linea cara a Del Noce che da certi aspetti di Cartesio va a Malebranche questo è il cardinale Hyacinthe-Sigismond Gerdil B. (1718-1802: cfr. Del Noce 1965, 653). Ora, è nota l’influenza di Gerdil su de Maistre e su tutto il mondo francofono che è alle origini della scuola contro-rivoluzionaria. E dello stesso Rosmini si è potuto scrivere che originariamente «forma il suo pensiero sulla letteratura contro-rivoluzionaria, in specie del conte savoiardo Joseph de Maistre» (Cantoni 2010, 79) – il che, beninteso, non comporta che si possano ascrivere alla scuola contro-rivoluzionaria tutte le opere del beato di Rovereto. Analoghe indagini andrebbero condotte su Vico. La contrapposizione fra il «momento positivo» del moderno di Del Noce e l’«antimoderno» contro-rivoluzionario non è rigida, anzi le due linee s’incontrano e s’intersecano più volte.

Il pensiero contro-rivoluzionario postula essenzialmente che la modernità come ideologia – che è cosa diversa dall’epoca moderna come semplice dato cronologico – abbia un orientamento nettamente prevalente di tipo laicista e anticristiano. Lo stesso Del Noce nelle sue analisi dell’ateismo moderno, del marxismo, del progressismo cattolico e del 1968 ha confermato questo postulato. Il fatto che nello scorrere della storia moderna si siano manifestati anche pensatori cristiani – così come sono apparsi, grazie a Dio, tanti santi – non modifica la conclusione secondo cui il carattere dominante della modernità è la deriva anticristiana e laicista.

La deriva non è «necessaria» di diritto, come pensa un certo tradizionalismo non cristiano sedotto da visioni pagane o orientali della storia come decadenza obbligatoria da un’età dell’oro originaria verso l’età oscura chiamata dai libri sacri induisti Kali Yuga, in cui tutti coloro che hanno la sventura di vivere in una determinata epoca sarebbero volenti o nolenti coinvolti. Questa prospettiva non solo non resiste alla critica dell’«antimoderno» proposta da Del Noce, ma nel suo nucleo profondo nega la libertà umana sottomettendola deterministicamente alla storia e ai suoi «cicli», così da rivelarsi incompatibile con il cristianesimo. Tuttavia, la scuola contro-rivoluzionaria non sostiene – certamente nelle sue articolazioni più mature, ma in realtà già nelle sue origini – la necessità di diritto di una deriva anticristiana della modernità. La constata leggendo la storia, dove la nobilissima resistenza di stili di pensiero alternativi non inficia la conclusione secondo cui la linea della modernità come ideologia si afferma come culturalmente, sociologicamente e politicamente dominante. Si può anche sostenere che la deriva rivoluzionaria e anticristiana obbedisce a una «necessità», non però di diritto ma di fatto: una volta poste certe premesse intellettuali, le conseguenze seguono.

Grati a Del Noce degli elementi di riflessione che ci ha offerto, anche donando con generosità il suo tempo a chi di noi era allora molto giovane, abbiamo pertanto mantenuto il nostro spirito contro-rivoluzionario e «antimoderno». Le sue critiche ci hanno semmai aiutato a precisare il significato di queste espressioni e a evitare trappole e fraintendimenti. A Del Noce possiamo dunque promettere oggi, con affetto, una vigilanza che a fronte di passati errori altrui veglierà a evitare ogni possibile «rovesciamento» dell’antimoderno nell’ultramoderno progressista sulla scia di Lamennais e di un certo Maritain.

E tuttavia la nostra posizione è chiara. Alla scuola di Benedetto XVI ci sforziamo di accogliere le domande della modernità, ma non possiamo accettare le risposte di un’ideologia che comporta il rifiuto della tradizione e l’idolatria del presente. In Portogallo il Papa ha appunto denunciato l’ideologia che «assolutizza il presente, staccandolo dal patrimonio culturale del passato» (Benedetto XVI 2010) e quindi fatalmente finisce per presentarsi «senza l’intenzione di delineare un futuro» (ibid.). Considerare il presente la sola «fonte ispiratrice del senso della vita» (ibid.), il che è l’essenza della modernità come ideologia, porta a svalutare e attaccare la tradizione, che in Portogallo – e non solo – «ha dato origine a ciò che possiamo chiamare una “sapienza”, cioè, un senso della vita e della storia di cui facevano parte un universo etico e un “ideale” da adempiere» (ibid.), strettamente legati all’idea di verità e all’identificazione di questa verità con Gesù Cristo. Dunque «si rivela drammatico il tentativo di trovare la verità al di fuori di Gesù Cristo» (ibid.): un altro elemento costitutivo del dramma della modernità.

Il «“conflitto” fra la tradizione e il presente si esprime nella crisi della verità, ma unicamente questa può orientare e tracciare il sentiero di una esistenza riuscita» (ibid.). In questo conflitto la Chiesa non ha dubbi su da che parte stare. «La Chiesa appare come la grande paladina di una sana ed alta tradizione» (ibid.): parole di Benedetto XVI che richiamano – certo con uno stile e un linguaggio diverso – quelle del suo predecessore san Pio X nella lettera apostolica del 1910, di cui pure ricorre il centenario, Notre charge apostolique secondo cui «i veri amici del popolo non sono né rivoluzionari, né innovatori, ma tradizionalisti» (Pio X 1910, n. 44).

La difesa della verità contro il culto relativistico e anti-tradizionale del presente è una missione «per la Chiesa irrinunciabile» (Benedetto XVI 2010), ripete Benedetto XVI. «Infatti il popolo, che smette di sapere quale sia la propria verità, finisce perduto nei labirinti del tempo e della storia» (ibid.). Sulla necessità di un filo d’Arianna costituito dalla tradizione cattolica per uscire da questi labirinti Del Noce sarebbe stato d’accordo: e di questo filo egli fu anzi impareggiabile tessitore. Anche per questo merita oggi la nostra gratitudine.


Riferimenti

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