domenica 28 agosto 2011

La verità storica fondamento dell’identità e dell'unità nazionale - Paolo Martinucci

Paolo Martinucci



La verità storica fondamento dell’identità e dell'unità nazionale

Conferenza tenuta a Pistoia il 13 maggio 2011 organizzata da associazione Sant'Ignazio di Loyola in collaborazione con Alleanza Cattolica e Studenti per le libertà- Pistoia



1. Premessa

In questo periodo di celebrazioni del centocinquantesimo anniversario della proclamazione del Regno d'Italia, i termini Unità e Risorgimento sono frequentemente confusi, in una significazione non univoca, e vengono richiamati con un’enfasi che ora contagia anche gli eredi del partito che, per buona parte del secolo scorso, costituì il partito anti-nazionale e filo-sovietico, il Partito comunista italiano. Occorre quindi, prima di affrontare il tema in oggetto, rendere compiutamente comprensibili i due vocaboli, assegnando loro un preciso senso.

L’ “Unità” è un fatto essenzialmente militare e politico, che ha comportato modificazioni di carattere territoriale, istituzionale ed amministrativo. Essa rappresentò un’esigenza diffusa, esplicitata nel dibattito politico del tempo con una serie di proposte di soluzioni istituzionali che avevano coinvolto anche la Santa Sede[1]. Una forma di unificazione del Paese si rendeva quindi necessaria, in conseguenza dei problemi sociali e politici del tempo: la difficile convivenza tra le grandi potenze, data dalle rispettive politiche di spregiudicata rivalità militare e mercantile, nuoceva pure alle piccole entità statali italiane; queste erano poste ai margini di quello sviluppo economico ed industriale che allora caratterizzava l’Europa, relegate quindi in una condizione commerciale asfittica e contrastata da una miriade di barriere doganali. Inoltre non era privo di conseguenze per la nostra Penisola il nuovo contesto geo-politico, dato dal venir meno della “protezione” e della “mediazione” delle due grandi realtà sovranazionali, l’Impero e la Chiesa cattolica.

Il Risorgimento, invece, è un fenomeno preminentemente culturale, anzi una rivoluzione culturale che ha preceduto, accompagnato, guidato il processo di unificazione che ha cambiato profondamente l’identità italiana, nella prospettiva di una modernizzazione, che mirava al superamento di una presunta arretratezza e decadenza dell'Italia, ritenuta questa una conseguenza della Controriforma, per avvicinare il Paese agli Stati di cultura protestante2,.

Nel considerare l’Unità come un dato di fatto, è necessario fare subito una sottolineatura che sgombrerà da ogni possibile equivoco il senso di questo intervento. Occorre evitare due contrapposte posizioni retoriche: «da un lato l’acritica apologia dell’evento unitario, dall’altro lato il vittimismo e il rivendicazionismo, sia nella versione nordista del “chi ce l’ha fatto fare di caricarci il Sud?”, sia nella versione meridionalista del “maledetto il giorno in cui siete scesi!”»3. Se nel 1861 l’unificazione del territorio italiano in un'unica entità statale, in dispregio di ogni dato storico, istituzionale e culturale, costituì un’operazione giacobina, sarebbe altrettanto rivoluzionario pensare ora ad una disgregazione di un Paese, i cui abitanti da secoli hanno percepito, e tuttora percepiscono, di essere espressione di una unità culturale e religiosa, al di là delle frammentazioni politiche, delle differenze regionali e dei “mille campanili” che lo caratterizzano4.

Lo stesso Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha recentemente affermato: «[…] le celebrazioni di questo storico anniversario [siano] occasione di riflessione seria e non acritica, e insieme una valorizzazione di tutto quel che ci unisce come nazione»5.

Allora subito una domanda: il Risorgimento è l’unico punto di riferimento imprescindibile per determinare il sentimento di appartenenza nazionale?

Per i vertici istituzionali, ma anche, in generale, per gli storici accademici, sembrerebbe di sì. Sempre dal Quirinale, si è parlato del processo unitario, senza distinguerlo dal Risorgimento, come di «una grande stella polare»6 che ha guidato il cambiamento dell’Italia; per il Presidente della Camera, Gianfranco Fini, gli elementi culturali ed identitari alla base dell’unità sono «un dato socialmente e culturalmente assai forte»7. Se queste affermazioni, citate ad esempio, possono risultare quasi una scontata difesa d’ufficio dell’Unità/Risorgimento, in considerazione della “ragione sociale” della carica ricoperta, il dibattito in corso nel Paese, invece, registra un pluralità di opinioni e di valutazioni. Registriamo di seguito, ed in forma certamente selettiva e, quindi, non esaustiva della disamina del fenomeno, tra le innumerevoli pubblicazioni e gli articoli apparsi sulle pagine culturali dei maggiori quotidiani nazionali, alcune opinioni sulla disputa.

Aveva iniziato, nel lontano 1996, l’on. Luciano Violante a smuovere le acque stagnanti della questione, affermando: «[…] a differenza di altri Paesi europei [l’Italia] non ha ancora valori nazionali comunemente condivisi. […] Le due grandi vicende della storia nazionale, il Risorgimento e la Resistenza, hanno coinvolto solo una parte del Paese ed una parte delle forze politiche»8. Con l’avvicinarsi della ricorrenza del centocinquantesimo, si sono moltiplicate le analisi più veritiere dal punto di vista storiografico, ben diverse dalla vulgata risorgimentale proposta sui testi scolastici o nei corsi universitari.

Espressioni di una lettura critica di questa pagina della nostra storia sono gli scritti dello storico ed editorialista del Corriere della Sera Ernesto Galli Della Loggia, secondo il quale l’identità “nazionale” è ancora percepita come “fragile” e lo Stato unitario ha mantenuto un carattere ideologico, essendosi originato da una rivoluzione/guerra civile9. Sullo stesso giornale, Aldo Cazzullo parla di «italiani controvoglia» e di «scetticismo con cui i partiti e ambienti culturali diversi guardano ai 150 anni della nostra nazione»; e sottolinea come per la sinistra marxista-gramsciana, il Risorgimento è «non una rivoluzione sociale ma una rivoluzione nazionale», mentre per i cattolici, precisa, «si fece contro il Papa»10. Umberto Eco presenta il Risorgimento come una lotta fratricida: «Nel nostro Paese non c’è l’uccisione del padre come è successo altrove [Carlo I, Luigi XVI], ma il fratricidio: tutti sono abituati a combattersi tra loro»11. Il professor Gianpaolo Romanato analizzando la legislazione anticattolica dello Stato unitario, sostiene: «Italia liberale? Non con la Chiesa»12.

Nel Paese poi la discussione e la polemica hanno assunto colorazioni, a volte folcloristiche, che esprimono un viscerale disagio per come si è svolto il processo unitario; le posizioni leghiste e neoborboniche sono alimentate anche dalla cosiddetta storiografia revisionistica, che si è proposta con numerosissime pubblicazioni, le quali, come è stato detto, non costituiscono tutta la verità sul Risorgimento, ma di certo, presentano un «brutta verità»13. E che dire del ritratto di Garibaldi bruciato, alcuni mesi fa, in una piazza di una città veneta? O del rifiuto del presidente della provincia di Bolzano a partecipare alle celebrazioni?

Eppure, proprio da parte dei maggiori critici del processo risorgimentale, i cattolici, vengono forti richiami ad una maggiore coesione e solidarietà, ad una effettiva condivisione di quei valori che costituiscono il patrimonio identitario della nostra nazione.

La Grande preghiera per l’Italia di Giovanni Paolo II, recitata il 15 marzo 1994, nel corso della concelebrazione eucaristica con i vescovi italiani presso la tomba dell’Apostolo Pietro, è stata preceduta da una meditazione sulle radici dell’Italia stessa, che indicava, questa sì, una pluralità di “stelle polari” che dovevano essere poste a fondamento del nostro convivere civile: l’Italia, terra particolarmente benedetta dalla Provvidenza, custodisce l’eredità degli apostoli Pietro e Paolo, conserva un patrimonio di fede e di cultura, dato dalla compenetrazione delle civiltà greca e latina inverate nel Cristianesimo, che, nel corso del Medioevo, definito un periodo d’oro per la storia d’Italia, ha permeato la vita sociale e civile del Paese, attraverso l’esempio e la parola dei suoi innumerevoli Santi — tra cui San Benedetto, San Francesco, San Tommaso d’Aquinio, Santa Caterina da Siena — che ne hanno plasmato le caratteristiche culturali e religiose. La presenza del segretario di Stato, card. Tarcisio Bertone, a Porta Pia e la prolusione all’Assemblea generale della CEI del 24 maggio 2010, del card. Angelo Bagnasco, manifestano disponibilità ad un sano dialogo ed offrono un aiuto a un Paese che non riesce a definire una propria identità e non sa scorgere nella sua secolare storia le proprie radici. L’omelia del cardinale Camillo Ruini, pronunciata il 18 novembre 2003, davanti alle bare dei diciannove caduti di Nassirya, ha rappresentato una delle non molte occasioni in cui tanti italiani hanno vissuto un forte sentimento di appartenenza nazionale, forse mai provato nella loro esistenza. Interventi nobili e generosi, questi, che manifestano l’alto senso di responsabilità della Chiesa nei confronti dell’Italia ed una forma di amore di italiani verso la loro patria.

In ogni caso, se il contenuto del dibattito “laico” attorno al fenomeno in esame è quello espresso dalle affermazioni prima riportate, occorre constatare che, nonostante le lezioni di educazione civica e di storia sul tema siano da molti decenni impartite secondo la vulgata agiografica, obbligatoriamente in tutte le scuole di ogni ordine e grado, pubbliche e private, il Risorgimento non ha ancora conquistato la mente ed il cuore di tutti gli italiani.



2. La natura ideologica del Risorgimento

Qual è il motivo di questo continuo “processo” al Risorgimento?

Credo che esso sia da ricercare nel fatto che l’unificazione è avvenuta attraverso lotte sanguinose ed una mitizzazione dei fatti e dei personaggi che ha alterato o nascosto la verità storica. Il carattere mitologico, ideologico, che caratterizzò questo momento della storia italiana, diede origine ad un culto, ad una liturgia, ad una religione civile, che generarono una rivoluzione odonomastica, una spropositata collocazione di monumenti, di lapidi e di epigrafi; in poco tempo l’Italia diventò «un monumento pietrificato pressoché immutabile»14, «ondata monumentalistica di massa che, a partire dagli anni settanta, materializza gli alfabeti civili dell’Unità messa in posa»15. Questo vero e proprio culto dei “padri della Patria”, Garibaldi, Cavour, Vittorio Emanuele II, Mazzini, associato alla mitizzazione della monarchia sabauda in generale, è stato imposto nella prospettiva di dare concretezza politico-istituzionale-culturale a delle visioni del mondo e della società mutuate da filosofie sociali utopistiche, importate dalla Francia e dal Regno Unito. Lo stesso Cavour, che non conosceva il territorio italiano, ma molto bene l’Europa, aveva, secondo Vincenzo Gioberti, una formazione culturale anglo-francese16. Sostanzialmente il processo risorgimentale non era rispondente ai sentimenti e agl’interessi concreti della maggioranza dei popoli italiani.



3. Risorgimento o “Rivoluzione italiana”?

Il Risorgimento aveva come punto di riferimento ideale la Rivoluzione francese. E, dal punto di vista ideologico, il Risorgimento è conseguenza della Rivoluzione francese, anzi è la Rivoluzione francese in Italia; su questo gli storici concordano: è evidente un filo rosso che lega il cosiddetto “dispotismo illuminato” al giacobinismo, e questo alla rivoluzione italiana17, così come la Rivoluzione francese è figlia per molti aspetti dell’assolutismo monarchico, almeno per quanto riguarda la “pianificazione”, la “razionalizzazione” della vita sociale. I programmi di riforma sociale dei principi “illuminati”, studiati “a tavolino”, sono fatti propri e resi più radicali dai giacobini, adattati poi alle nuove circostanze ed esigenze dal cesarismo napoleonico, e, in parte, mantenuti anche dalle forze della restaurazione.

Invece, per coloro che ritengono l’Unità come fatto eminentemente politico e non ideologico, il moto risorgimentale ha radici e protagonisti autoctoni: è questa l’interpretazione moderata, nazionalista e sabauda18. Queste ultime radici indubbiamente vi furono e possono essere ascritte ad uno dei termini in questione, l’Unità. L’unificazione della Penisola fu una delle due motivazioni che hanno portato alla nascita dell’Italia moderna ed è una caratteristica che non è conseguenza diretta dell’ideologia che ha alimentato gli avvenimenti francesi del 1789.

L’Unità, tuttavia, poteva essere realizzata in modi diversi, ad esempio secondo lo schema federalistico, che prevedeva la conservazione delle legittime monarchie, proposto da Gianfrancesco Galeani Napione (1748-1830), dal movimento neo-guelfo dell'abate Vincenzo Gioberti (1801-1852), ma anche da Cesare Balbo (1789-1953), che inizialmente era "unitario" sotto la guida dei Savoia, e dal beato Antonio Rosmini-Serbati (1797-1855); oppure, tralasciando la forma repubblicana centralista e radicale di Giuseppe Mazzini (1805-1872), il processo unitario poteva seguire la prospettiva federale repubblicana, di Carlo Cattaneo (1801-1869) — che, in un primo tempo, non prevedeva l’unità politica della Penisola, bensì un patto federale che inglobasse il Nord all’Austria, sposando solo dopo i moti del 1848 la causa di un federalismo nazionale — e di Giuseppe Ferrari (1811-1876). Al contrario l’Unità venne realizzata in funzione degli interessi geo-politici del Regno di Sardegna, secondo la prospettiva ideologica, liberale e fortemente nazionalistica, ereditata dalla Rivoluzione francese e, in particolare, dal ventennio della dominazione napoleonica in Italia (1796-1815), quando venne attuata una trasformazione delle strutture politiche e degli assetti culturali, eversiva del plurisecolare passato della popolazione italiana19.

Per il sociologo Massimo Introvigne, la modernizzazione italiana, nelle sue dimensioni politiche, economiche, culturali, si è svolta sotto l’influenza del partito “anti-italiano”, cioè di élite secondo le quali l’ethos cattolico era la causa della presunta arretratezza culturale, civile ed economica dell’Italia; per costoro il Paese scontava il fatto di non aver aderito alla rivoluzione protestante e di essere rimasto fedele al Papato e, conseguentemente, di essere stato permeato della cultura controriformista. Queste élite volevano non tanto “fare” gli italiani, quanto piuttosto fare un’Italia “ideale” contro gli italiani “reali”20. E poiché tale ethos era radicato nei localismi e nelle peculiarità regionali, per consolidare le deboli basi dello Stato unitario, si diede corso ad una vigorosa azione anti-municipalistica ed anti-federativa, contro ogni forma di decentramento.

Il Risorgimento dell’Italia, quello che avvenne nella realtà, si tradusse invece nell’esautorazione delle classi politiche pre-unitarie, nella mortificazione delle antiche capitali, nello sconvolgimento delle strutture economico-sociali. Il tessuto connettivo della «nazione spontanea»21 venne lacerato, in conseguenza della demolizione delle antiche istituzioni e delle consolidate forme di amministrazione del territorio22. In questo modo, nel tentativo di dar corpo ad una nazione ideale, vennero distrutte le nazionalità reali23. A fronte di tale opera di devastazione istituzionale-economico-sociale, venne creato uno Stato fortemente centralizzato, caratterizzato da uniformità amministrativa e fiscale e da una esasperata secolarizzazione. La legislazione antireligiosa dei primi governi del Regno d’Italia24 — già, per molti aspetti, attuata dalla Repubblica Romana (1848-1849)25, dal Regno di Sardegna, con le leggi di Giuseppe Siccardi (1802-1857)26 e del governo del “connubio”, costituito dal centro di Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861) e dal centrosinistra di Urbano Rattazzi (1808-1873)27 —, portò inevitabilmente ad uno scontro diretto con la Chiesa cattolica, che si oppose al tentativo dell’ideologia risorgimentale di allontanare il Paese dalle sue radici cristiane.

4. Il lascito del Risorgimento: le tre “questioni”

Si apriva così una serie di questioni, meglio di ferite, che la comunità nazionale non ha ancora risolto centocinquant’anni dopo la sua unificazione politica.



4.1- La "questione cattolica"

Nacque allora — certamente almeno a partire dal 1848, dopo il rifiuto di Papa Pio IX di muovere guerra a fianco dei piemontesi contro l’Impero austriaco — una "questione cattolica", contesa ben più ampia di quella che verrà chiamata "questione romana", nata a seguito della conquista militare di Roma nel 1870 da parte dell’esercito italiano. Questa è stata risolta compiutamente dai Patti Lateranensi del 1929, che hanno sanato gli aspetti giuridici e politici, accettando l’esistenza di un minuscolo, ma reale, Stato vaticano e regolamentando, con il Concordato, i rapporti nelle materie miste fra Stato italiano e Santa Sede.

La "questione cattolica" è più ampia, perché affonda nel corpo sociale italiano, inerendo al ruolo ed agli spazi che i cattolici possono avere nella società e nello Stato. Essa “questione”, nel nuovo Stato unitario, si esplicò in una completa separazione fra Stato e Chiesa28, nella scristianizzazione della società, soprattutto della sua sfera pubblica, e nell’emarginazione o nel ridimensionamento della presenza organizzata dei cattolici: il “Paese reale”, cioè il mondo cattolico italiano, nel primo decennio seguito all’unificazione, ma ancor di più dopo il 1870 e fino al patto Gentiloni29, non ebbe voce nel “Paese legale”, che, al momento della proclamazione del Regno d’Italia, rappresentava circa il 2% della popolazione.

L’eclissi politica dei cattolici è comunque continuata anche durante il fascismo, al quale, di fatto, essi delegarono la rappresentanza politica, nonostante i ripetuti contrasti del regime fascista con la Santa Sede, specie in tema di educazione della gioventù. Dopo il secondo conflitto mondiale, il cattolicesimo venne indubbiamente rispettato; tuttavia, nonostante l’epocale vittoria cattolica alle elezioni politiche del 18 aprile 1948, esso non fu mai effettivamente ripreso dalla Democrazia Cristiana come riconosciuto fondamento della nazione italiana. Gli intellettuali, che erano l’espressione del mondo cattolico, non fecero propria la polemica antirisorgimentale, che caratterizzò il magistero italiano dei pontefici, a partire dal beato Papa Pio IX, e che era stata l’anima di quel movimento cattolico intransigente e che lo storico liberale Giovanni Spadolini (1925-1994) ha definito come ”opposizione cattolica”30. Così il Risorgimento non fu più considerato un momento fondamentale del processo di scristianizzazione della nazione.



4.2 - La "questione meridionale"

Essa è stata originata dalla guerra civile che sconvolse il Mezzogiorno nel decennio 1860-1870 e che costò migliaia e migliaia di morti. Oltre ai lutti, il conflitto lasciò in eredità un seguito di contrasti etnico-classisti, un’insofferenza popolare verso lo Stato, data dal senso di persecuzione ed esclusione che afflisse la popolazione; conseguentemente, questa ricercò la protezione delle organizzazioni criminali di tipo mafioso31.

Alla conquista seguì la spoliazione economica, giustificata dai costi dell’unificazione e dalla gestione finanziaria della dittatura garibaldina al Sud. Venne istituito il Gran Libro del debito pubblico, in cui furono iscritti i debiti degli antichi Stati, oltre la metà dei quali ascrivibili al Regno di Sardegna; pertanto le spese sostenute per l’invasione furono affibbiate alle popolazioni dette terre conquistate32. Il carico fiscale lievitò enormemente, a causa di una nuova legislazione tributaria che applicò le tariffe doganali del Regno di Sardegna. Le industrie meridionali persero anche le commesse statali che furono assegnate a quelle settentrionali, rompendo gli equilibri dell’economia del Mezzogiorno con esiti disastrosi. Non marginale fu l’intensificazione del flusso emigratorio verso le Americhe; tra il 1876 e il 1914 ben 5.400.000 meridionali lasciarono il proprio territorio alla ricerca di maggior fortuna33.



4.3 - La "questione federalista"

È questione attualissima, retaggio della forma dello Stato che i primi governi italiani adottarono: una forma fortemente centralizzata sulla base del modello francese, quando invece il "vestito" politico adatto al Paese doveva palesemente essere di carattere federale, nel rispetto delle profonde diversità delle popolazioni, delle loro varie storie e dei rispettivi governi pre-unitari34. Problemi che l’istituzione delle regioni nel 1970 non ha affatto risolto, visto l’impronta verticistica (è stato decentrato il centralismo!), burocratica.



5. La verità storica fondamento dell’identità e dell’unità

Allora, cosa manca alla ricostruzione di una memoria nazionale condivisa? Quali aspetti occorre evidenziare al fine della definizione di una memoria almeno accettata? Serve recuperare la verità storica, cioè presentare la verità sulla storia d’Italia, senza mettere in discussione un’unità che esiste da centocinquant’anni anni, ma evidenziando ciò che è stato taciuto, nascosto o sminuito. La nostra storia va studiata, ma non con i paraocchi della ideologia risorgimentale.

La prima operazione culturalmente seria è quella di liberarci da narrazioni che non appartengono all’ethos italiano. La vicenda politica e culturale degli ultimi due presidenti della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano che hanno notevolmente contribuito alla diffusione ed al rilancio del mito risorgimentale, comunque riconosciuti e rispettati per l’alta funzione esercitata, non è rappresentativa della vera identità italiana. L’azionismo e il comunismo sono, dal punto di vista sociale e politico, la negazione dei riferimenti valoriali propri della tradizione culturale e civile italiana e alla base della nostra convivenza. Nemmeno il cosiddetto “patriottismo costituzionale” esprime l’identità della nostra nazione: esso esalta la costituzione come un totem immodificabile, ma è pronto, sui temi per un cattolico non negoziabili, a forzare la lettura della costituzione. L’identità italiana deve avere come riferimento la condivisione dei “valori” espressi dalla nostra storia.

Attuare questa ricerca della verità storica favorirà la riscoperta di una identità nazionale: un’identità italiana svincolata da ogni ideologia, che può accomunare laici e cattolici, perché centrata sui valori espressi dalla storia del Paese, sulle profonde radici del medesimo che non è nato nel 1861. L’Italia è nata nell’Alto Medioevo, è frutto dell’incontro della cultura classica e del Cristianesimo, che in Roma ha posto la sede del proprio capo spirituale; la sua identità si è irrobustita nella resistenza all’espansionismo islamico e al protestantesimo, si è rafforzata durante la Controriforma e si è manifestata nel periodo della grande Insorgenza, dal 1792 al 1814, antirivoluzionaria e antinapoleonica, e nelle forme oppositive al processo di scristianizzazione e di centralizzazione del potere attuato durante il Risorgimento.





[1] Per movimento neoguelfo, il Papato doveva essere alla guida di un processo unitario federale; Pio IX (1846-1878) si fece promotore di una lega doganale fra gli Stati italiani sul modello di quella tedesca (deutscher Zollverein). Circa la distinzione tra Unità e Risorgimento, cfr. Francesco Pappalardo, L’Unità d’Italia e il Risorgimento, D’Ettoris Editori, Crotone 2010, p. 9; Idem, Il Risorgimento, i Quaderni del Timone, Edizioni Art, Novara 2010, p. 7; Giovanni Cantoni, Conclusioni «Unità sì, Risorgimento no», in Francesco Pappalardo - Oscar Sanguinetti (a cura di), 1861-2011. A centocinquant’anni dall’Unità d’Italia. Quale identità?, Cantagalli, Siena 2011, p. 187.

2 Cfr. Massimo Introvigne, Introduzione. Centocinquant’anni dopo: identità cattolica e unità degli italiani, in Francesco Pappalardo - Oscar Sanguinetti (a cura di), op. cit., pp. 5-33; Francesco Pappalardo, L’Unità d’Italia e il Risorgimento, cit., pp. 8-9.

3 Alfredo Mantovano, Presentazione, in Francesco Pappalardo, Il mito di Garibaldi. Una religione civile per una nuova Italia, Sugarco, Milano 2010, p. 7.

4 È sempre Alfredo Mantovano a richiamare, a p. 7 del testo di cui alla nota 3, il senso di appartenenza alla medesima «comunità di destino» che caratterizza la popolazione italiana; concetto, questo, introdotto dal saggista e polemista francese Gustave Thibon (1903-2001), in Idem, Ritorno al reale. Prime e seconde diagnosi in tema di fisiologia sociale, con Prefazione di Gabriel Marcel (1889-1973), a cura e con Considerazioni introduttive di Marco Respinti , trad. it., Effedieffe, Milano 1998, pp. 123-145.

5 Lettera a quotidiano la Repubblica del 19 febbraio 2011.

6 Discorso del 15.04. 2010 ai componenti della Consulta per l'emissione di Carte valori postali e la filatelia e della Commissione per lo studio e l'elaborazione delle carte valori postali, in occasione della presentazione dei quattro francobolli celebrativi del 150° anniversario della Spedizione dei Mille.

7 Discorso del 15.11.2010, in occasione della presentazione, da parte dell’Associazione Italiadecide, del rapporto “L’Italia che c’è”, presso la Sala della Lupa di Palazzo Montecitorio.

8 Discorso di insediamento alla presidenza della Camera dei deputati il 9 maggio 1996.

9 Cfr. Ernesto Galli Della Loggia, L’identità italiana, Il Mulino, Bologna 1998, pp. 176 e Idem, La morte della patria. La crisi dell’idea di nazione, Laterza, Bari 2003, pp. 145.

10 Cfr. Corriere della sera del 13 febbraio 2011.

11 Cfr. la Repubblica del 18 febbraio 2011.

12 Cfr. Avvenire del 1 marzo 2011.

13 Cfr. Maurizio Blondet in Avvenire del 19 agosto 2001.

14 Romano Ugolini, Garibaldi. Genesi di un mito, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1982, p. 13.

15 Mario Isnenghi, Garibaldi fu ferito. Storia e mito di un rivoluzionario disciplinato, Donzelli, Roma 2007, p. 143.

16 Circa questi aspetti («anglico nelle idee, gallico nella lingua», diceva Gioberti riferito a Cavour) e la sua non estraneità al mondo religioso riformato ed alla massoneria, cfr. Francesco Pappalardo, Il mito di Garibaldi. Una religione civile per una nuova Italia, cit., pp. 101-111.

17 Wenzel Anton von Kaunitz (1711-1794), cancelliere dell’imperatrice Maria Teresa e di Giuseppe II, affermava: «Per alzare una buona fabbrica bisogna atterrare la vecchia» (cfr. Franco Valsecchi, Dispotismo illuminato, in AA. VV., Nuove questioni di Storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, vol. I, Marzorati, Milano 1961, p. 190.

18 La politica conciliativa austriaca, seguita al Congresso di Vienna (1814-1815) e ispirata da Clemens Wenzel Lothar di Metternich (1773-1859), in particolare in Lombardia e nel Veneto, manteneva il potere statale nella burocrazia a discapito delle articolazioni sociali, lasciando nella sostanza intatte le strutture amministrative del periodo napoleonico, esautorando la borghesia e la nobiltà dalla gestione del potere; questi ceti si opponevano ad una monarchia amministrativa, burocratica, a volte odiosamente poliziesca, e si riconoscevano nel costituzionalismo, ritenuto maggiormente rappresentativo dei loro interessi. Cfr. Robertino Ghiringhelli - Oscar Sanguinetti, Il cattolicesimo lombardo tra Rivoluzione francese, Impero e Unità, Edizioni Scientifiche Abruzzesi, Pescara 2006.

19 Relativamente agli avvenimenti ed alle insorgenze popolari nei periodo giacobino e napoleonico, cfr. Carlo Zaghi, L'Italia giacobina, Utet Libreria, Torino, 1989; Idem, L’Italia di Napoleone, Utet Libreria, Torino 1989; Francesco Mario Agnoli, Guida introduttiva alle Insorgenze contro-rivoluzionarie in Italia durante il periodo napoleonico (1796-1815), Mimep-Docete, Pessano (Milano), 1996; Massimo Viglione, La "Vandea Italiana", Edizioni FdF, Milano, 1995; Idem, Rivolte dimenticate, Città Nuova Editrice, Roma, 1999; Oscar Sanguinetti (a cura di), Insorgenze antigiacobine in Italia (1796-1799). Saggi per un bicentenario, Istituto per la Storia delle Insorgenze, Milano 2001; Idem, Le insorgenze contro-rivoluzionarie in Lombardia nel primo anno della dominazione napoleonica.1796, Cristianità, Piacenza, 1996,Chiara Continisio (a cura di), Le insorgenze popolari nell’Italia napoleonica. Crisi dell’antico regime e alternative di costruzione del nuovo ordine sociale, Ares, Milano 2001; Giacomo Lumbroso, I moti popolari contro i francesi alla fine del secolo XVIII (1796.1800), Maurizio Minchella Editore, Milano 1997; Francesco Pappalardo - Oscar Sanguinetti, Insorgenti e sanfedisti: dalla parte del popolo. Storie e ragioni delle Insorgenze anti-napoleoniche in Italia, Tekna, Potenza 2000. Per quanto concerne gli aspetti istituzionali e politici dello stesso periodo, cfr. Carlo Ghisalberti, Le costituzioni "giacobine" (1796-1799), Giuffré, Milano, 1957; Melchiorre Roberti, Stato costituzionale e stato autoritario in Italia nel periodo napoleonico, IUS, Rivista di Scienze Giuridiche, Università Cattolica del Sacro Cuore, fasc. gennaio- marzo 1941-XIX- Anno II- Fasc. I; Idem, Milano capitale napoleonica, la formazione di uno stato moderno 1796-1814, Fondazione Treccani degli Alfieri per la storia di Milano, voll. I, II, III, Milano 1946.

20 Massimo Introvigne, op. cit., pp. 5-33

21 L’espressione “nazione spontanea” è stata coniata da Mario Albertini (1919-1997), politologo federalista e si trova in Mario Albertini, Il Risorgimento e l’unità europea, in Idem, Tutti gli scritti, vol. III. 1958-1961, il Mulino, Bologna 2007, p. 784.

22 Cfr. Intervento al Parlamento del giurista Pasquale Stanislao Mancini (1817-1888) dell’8 dicembre 1861, in Atti del Parlamento italiano. Discussioni della Camera dei Deputati. Sessione del 1861, Eredi Botta, Torino 1862, p. 218.

23 Cfr. Giacinto de’ Sivo, I Napolitani al cospetto delle nazioni civili, Borzi, Roma 1967, p. 43.

24 La tensione tra Papato e Regno d’Italia non fu tanto determinata dalle rivendicazioni territoriali, anche se il tema della conquista di Roma da parte dei piemontesi, prima e dopo Porta Pia, ebbe molto peso, quanto piuttosto dalla legislazione fortemente limitante la libertas Ecclesiae, tra cui le leggi vessatorie e persecutorie nei confronti del clero e quelle miranti alla laicizzazione della società. Furono imprigionati molti vescovi, altri esiliati; le perquisizioni e le spoliazioni erano continue. Nel 1865: su 229 sedi vescovili, ben 108 (tra cui quelle di Torino, di Milano e di Bologna) erano senza pastore; 45 vescovi si trovavano in esilio; ad altri 17 nominati dal Papa non era stato permesso di insediarsi in diocesi. Fondamentale in quest’opera di laicizzazione della società fu l’attività dei circoli anticlericali e delle logge massoniche che influenzarono la classe politica, la scuola, la burocrazia, l’esercito e la magistratura; a nulla servì la norma che proibiva alle logge di occuparsi di politica. Due furono le leggi maggiormente persecutorie: quelle del 7 luglio 1866 e del 15 agosto 1867 che rimasero in vigore fino al 1929: esse portarono alla soppressione, cioè privati del riconoscimento giuridico, circa 2.000 ordini, corporazioni e congregazioni religiose, le collegiate (cioè i capitoli formati da ecclesiastici di chiese non cattedrali), i canonicati, le abbazie e i priorati. Non fu permessa, nelle poche congregazioni femminili rimaste, l’ammissione di novizie. La legge del 1867 in particolare privò di personalità giuridica circa 25.000 enti ecclesiastici, le cui proprietà passarono alla borghesia fondiaria (più di un 1.000.000 di ettari furono messi all’asta entro il 1870); nel Mezzogiorno quasi 1.300.000 ettari di demani comunali furono ceduti ai privati. Grandi speculatori fecero affari a danno dei contadini, recidendo così le radici sociali della Chiesa, ed accelerando il processo di secolarizzazione, aprendo la strada al socialismo in vasti strati della popolazione. Su queste tematiche cfr. pure Antonio Socci, La dittatura anticattolica. Il caso don Bosco e l’altra faccia del Risorgimento, Sugarco, Milano 2005.

25 Questi gli aspetti persecutori e anticattolici della Repubblica Romana (1848), guidata da Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi (1819-1890) e Carlo Armellini (1777-1863): vennero confiscate le proprietà ecclesiastiche e dichiarati nulli i voti religiosi; furono rese obbligatorie le celebrazioni dei riti per la repubblica, occupati i conventi, profanate le chiese; imprigionati numerosi sacerdoti, tra i quali san Vincenzo Pallotti (1795-1850), il card. Filippo de Angelis (1792-1877) vescovo di Fermo, il vescovo di Orvieto mons. Giuseppe Maria Vespignani (1800-1865) e il vescovo di Gubbio mons. Giuseppe Pecci (1776-1855); molti preti vennero uccisi nel convento di San Calisto in Trastevere.

26 Con le leggi Siccardi del 1850, furono aboliti il foro ecclesiastico, il diritto d’asilo nelle chiese e nei conventi e limitate di numero le feste religiose; venne pure introdotto l’obbligo di chiedere allo Stato, da parte degli enti morali ed ecclesiastici, l'autorizzazione prima di procedere ad acquisti o di accettare donazioni.

27 Il governo del “connubio” attuò un programma ancora più radicale; furono arrestati l’arcivescovo di Torino, mons. Luigi Fransoni (1789-1862) e l’arcivescovo di Sassari, mons. Alessandro Domenico Varesino (1798-1864); fu espulso dal territorio del Regno l’arcivescovo di Cagliari, mons. Giovanni Emanuele Morongiu Nurra (1794-1866); ridotte le pene per il reato di vilipendio alla religione, si introdussero sanzioni nei confronti dei sacerdoti che nell’esercizio del loro ministero avessero criticato le leggi dello Stato; cessò l’erogazione dei contributi statali alle spese per il culto. La legge 29 maggio 1855 soppresse le comunità religiose che non avevano lo scopo di predicazione, di educazione o di assistenza: persero la personalità giuridica gli enti non utili allo Stato, 34 ordini su 56, e furono chiuse 335 case su 604. Lo Stato, quindi, decideva quali fossero le istituzioni ecclesiastiche “utili” alla Chiesa o alla società, assicurando più denaro all’erario. Non si trattava, tuttavia, di una questione economica, bensì ideologica. Infatti il governo, nel 1855, respinse la proposta dell’episcopato subalpino, guidato dal vescovo di Casale, senatore, Luigi Nazari di Calabiana (1808-1892), il quale aveva offerto una somma che avrebbe coperto le spese per il culto, purché lo Stato non incamerasse i beni ecclesiastici.

28 Nella sostanza la formula cavouriana “Libera Chiesa in libero Stato” fu sostituita da quella, coniata da Luigi Luzzatti (1841-1927), di «“religioni libere nello Stato sovrano”»; la Chiesa fu libera di esistere e di agire, ma all’interno di una cornice fissata in modo unilaterale dallo Stato sovrano.

29 Vincenzo Ottorino Gentiloni (1865-1916), presidente dell’Unione elettorale cattolica, dal 1909 al 1916, si accordò coi liberali moderati in occasione delle elezioni politiche del 1913: i cattolici avrebbero appoggiato i candidati liberali che si assumevano l’impegno di non promuovere leggi anticattoliche.









30 Cfr. Giovanni Spadolini, L’opposizione cattolica, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1994. Circa le tematiche del movimento cattolico ed i rapporti dello stesso con il nuovo Stato unitario, cfr. anche Marco Invernizzi, L'Unione Elettorale Cattolica Italiana 1906-1919. Un modello di impegno politico unitario dei cattolici, Cristianità, Piacenza 1993; Idem, Il movimento cattolico in Italia dalla fondazione dell'Opera dei Congressi all'inizio della seconda guerra mondiale (1874-1939), Mimep-Docete, Pessano 1995, 2 ed.; Idem, I cattolici contro l'Unità d'Italia? L'Opera dei Congressi (1874-1904), Piemme, Casale Monferrato 2002; Giorgio Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, Editori Riuniti, Roma 1974.

31 L’antecedente storico del ricorso alle organizzazioni malavitose per la difesa dei propri interessi è da ravvisarsi nell’operato del massone Liborio Romano (1793-1867) che, nominato ministro di polizia da Francesco II, affidò alla camorra l’organizzazione della guardia nazionale di Napoli, consegnando la capitale ai delinquenti.

32 Cfr. Gustavo Rinaldi, Il Regno delle Due Sicilie. Tutta la verità, Controccorrente, Napoli 2009, pp. 299-318. A pagina 361 del volume, è riportata una significativa valutazione di Giacinto de’ Sivo (1814-1867) storico del periodo, tratta da I Napolitani al cospetto delle nazioni civili: «L’unità per noi è ruina […] Siam costretti a pagare i debiti fatti dal Piemonte appunto per corrompere e comprare il nostro paese. Con la fusione de’ debiti pubblici, noi nove milioni d’anime, con un lieve debito di 550 milioni di lire, ci fondiamo con quattro milioni d’anime ch’hanno l’enorme debito che sopravanza i mille milioni; vale a dire che noi pagheremo quattro volte i nostri debiti. Avezzi alla pace, saremo trascinati a combattere le frequenti guerre europee. E a fare i soldati, lontani di casa, in luoghi nevosi e mortiferi a mille miglia distinti»; nella quarta di copertina dello stesso volume, è riportata una riflessione di Luigi Einaudi (1874-1961): «Sì è vero che noi settentrionali abbiamo contribuito di meno ed abbiamo profittato di più delle spese fatte dallo stato italiano dopo la conquista dell’unità e dell’indipendenza nazionale. Peccammo, è vero, di egoismo quando il settentrione riuscì a cingere di una forte barriera doganale il territorio nazionale e ad assicurare così alle proprie industrie il monopolio del mercato nazionale. Noi riuscimmo così a fare affluire dal sud al nord una enorme quantità di ricchezza, nel momento appunto in cui la chiusura dei mercati esteri, conseguenza della nostra politica protezionista, impoveriva l’agricoltura, unica e progrediente industria del sud» (dal saggio Il buongoverno).

33 Cfr. Gustavo Rinaldi, op. cit., p. 376

34 Il Cavour, il 15 gennaio 1861, scriveva al Governatore della Sicilia: «Noi siamo […] amanti della discentralizzazione in quanto le nostre teorie sullo Stato non comportano la tirannia di una capitale sulle province, né la creazione di un centro artificiale contro cui lotterebbero sempre le tradizioni, le abitudini dell’Italia» E il 13 marzo 1861, Marco Minghetti (1818-1886), ministro degli Interni dell’ultimo governo Cavour, dichiarava: «non vogliamo la centralità francese […] noi dobbiamo evitare accuratamente questo sistema» . Egli voleva la ripartizione di “sei consorzi di province” grosso modo corrispondenti alle realtà politiche preunitarie, in salvaguardia di una certa autonomia, come prevista dalla creazione delle luogotenenze. La Camera respingeva le proposte di Minghetti e il 29 marzo 1865 estendeva a tutto il Regno le leggi del Regno di Sardegna [Cfr. Un tempo da riscrivere: Il risorgimento italiano, a cura dell’Associazione Culturale Identità Europea, Itaca, Castelbolognese (Ra) 2000, p. 30]. Cfr. inoltre Giuseppe Brienza, Unità senza identità. Come il Risorgimento ha schiacciato le differenze fra gli Stati italiani, Solfanelli, Chieti 2010, pp. 28-29: «[…] lo storico dell’Amministrazione Alessandro Taradel (1930-2008) ha dimostrato come “[…] la riorganizzazione dell’amministrazione centrale sarda venne effettuata non secondo lo schema autonomamente elaborato in sede governativa e/o parlamentare, ma letteralmente “copiando” molte delle disposizioni contenute nei decreti leopoldini del 1846”, vale a dire emanati da re Leopoldo I dei Belgi (1831-1865) il 21 novembre 1846, a loro volta ispirati dall’assetto napoleonico (poi progressivamente diluito in Francia) del 1809».

31 L’antecedente storico del ricorso alle organizzazioni malavitose per la difesa dei propri interessi è da ravvisarsi nell’operato del massone Liborio Romano (1793-1867) che, nominato ministro di polizia da Francesco II, affidò alla camorra l’organizzazione della guardia nazionale di Napoli, consegnando la capitale ai delinquenti.

32 Cfr. Gustavo Rinaldi, Il Regno delle Due Sicilie. Tutta la verità, Controccorrente, Napoli 2009, pp. 299-318. A pagina 361 del volume, è riportata una significativa valutazione di Giacinto de’ Sivo (1814-1867) storico del periodo, tratta da I Napolitani al cospetto delle nazioni civili: «L’unità per noi è ruina […] Siam costretti a pagare i debiti fatti dal Piemonte appunto per corrompere e comprare il nostro paese. Con la fusione de’ debiti pubblici, noi nove milioni d’anime, con un lieve debito di 550 milioni di lire, ci fondiamo con quattro milioni d’anime ch’hanno l’enorme debito che sopravanza i mille milioni; vale a dire che noi pagheremo quattro volte i nostri debiti. Avezzi alla pace, saremo trascinati a combattere le frequenti guerre europee. E a fare i soldati, lontani di casa, in luoghi nevosi e mortiferi a mille miglia distinti»; nella quarta di copertina dello stesso volume, è riportata una riflessione di Luigi Einaudi (1874-1961): «Sì è vero che noi settentrionali abbiamo contribuito di meno ed abbiamo profittato di più delle spese fatte dallo stato italiano dopo la conquista dell’unità e dell’indipendenza nazionale. Peccammo, è vero, di egoismo quando il settentrione riuscì a cingere di una forte barriera doganale il territorio nazionale e ad assicurare così alle proprie industrie il monopolio del mercato nazionale. Noi riuscimmo così a fare affluire dal sud al nord una enorme quantità di ricchezza, nel momento appunto in cui la chiusura dei mercati esteri, conseguenza della nostra politica protezionista, impoveriva l’agricoltura, unica e progrediente industria del sud» (dal saggio Il buongoverno).

33 Cfr. Gustavo Rinaldi, op. cit., p. 376

34 Il Cavour, il 15 gennaio 1861, scriveva al Governatore della Sicilia: «Noi siamo […] amanti della discentralizzazione in quanto le nostre teorie sullo Stato non comportano la tirannia di una capitale sulle province, né la creazione di un centro artificiale contro cui lotterebbero sempre le tradizioni, le abitudini dell’Italia» E il 13 marzo 1861, Marco Minghetti (1818-1886), ministro degli Interni dell’ultimo governo Cavour, dichiarava: «non vogliamo la centralità francese […] noi dobbiamo evitare accuratamente questo sistema» . Egli voleva la ripartizione di “sei consorzi di province” grosso modo corrispondenti alle realtà politiche preunitarie, in salvaguardia di una certa autonomia, come prevista dalla creazione delle luogotenenze. La Camera respingeva le proposte di Minghetti e il 29 marzo 1865 estendeva a tutto il Regno le leggi del Regno di Sardegna [Cfr. Un tempo da riscrivere: Il risorgimento italiano, a cura dell’Associazione Culturale Identità Europea, Itaca, Castelbolognese (Ra) 2000, p. 30]. Cfr. inoltre Giuseppe Brienza, Unità senza identità. Come il Risorgimento ha schiacciato le differenze fra gli Stati italiani, Solfanelli, Chieti 2010, pp. 28-29: «[…] lo storico dell’Amministrazione Alessandro Taradel (1930-2008) ha dimostrato come “[…] la riorganizzazione dell’amministrazione centrale sarda venne effettuata non secondo lo schema autonomamente elaborato in sede governativa e/o parlamentare, ma letteralmente “copiando” molte delle disposizioni contenute nei decreti leopoldini del 1846”, vale a dire emanati da re Leopoldo I dei Belgi (1831-1865) il 21 novembre 1846, a loro volta ispirati dall’assetto napoleonico (poi progressivamente diluito in Francia) del 1809».